Saturday, October 12, 2013

Soundtrack

La sessione all'Open Dojo inizia piano, come se il tempo instabile di questo Ottobre abbia trovato il modo di insinuarsi dentro l'ambiente dove il Sabato lo Shinseikai Karate pratica la disciplina nella sua forma più ardita, e forse più bella: capire dove migliorarsi, ed eseguire.

Arrivo in netto anticipo, e trovo comunque il Senpai e altri studenti già pronti per iniziare. E fa bene al cuore vedere che c'è qualcuno che ti ha preceduto. Vesto il Karategi nello spogliatoio vuoto, mi domando se fuori ha iniziato a piovere, mi domando da quanto tempo quel calzino si trova in quella posizione e se avrà la fortuna di vedere la prossima primavera in quella comoda postura.

Entro. Saluto il Dojo. OSU!
Inizio il riscaldamento, e sento subito qualcosa di strano e interessante. C'è una voce che mi da i comandi da eseguire.

Corsetta di scioglimento

50 Jumping Jacks
25 in diagonale
           Respira correttamente

Gamba opposta al braccio
50 Squat
Ogni 10 un Sumo Squat
           Respira correttamente

50 Addominali alti
Corsa a ginocchia alte
20 Burpees
           Respira correttamente

Stretching

La voce mi dice che sono caldo, e che posso passare allo studio del Mawashi Geri. La voce mi faceva sentire meno solo, come una specie di colonna sonora in esecuzione durante il risveglio muscolare e che mi porta nella fase di applicazione di tecniche e interazioni con altri studenti e amici.

Forse il senso dell'Open Dojo è proprio questo: portare con noi la propria colonna sonora, che non solo ci è di compagnia ma anche di critica, per migliorarci senza compiacimento.

Sunday, September 22, 2013

Circuit loop






Altro giorno, altro giro, altro regalo...


I chiaccheroni chiacchierano, i lamentosi si lamentano, e noi facciamo circuiti su circuiti su circuiti. 

I circuiti con i quali abbiamo iniziato l'anno accademico 2013/2014 hanno i nomi di deità antiche, non sempre corrispondenti alle aree di influenza delle deità stesse (Afrodite, Dione, Venere) e che, conseguentemente, ci lasciano senza parole. Intendo, senza fiato. Dopo decine, centinaia di burpees, addominali e squats la testa non ne può più, e il corpo sembra essere andato via e non in vacanza.

Ce li sogniamo di notte, i circuiti. O almeno ci appaiono tra un ronfo e l'altro, e quando ci si alza per andare al lavoro (sì, lo sappiamo, siamo homo abilis fortunati) lo specchio ci urla addosso tutta la nostra umana caducità mostrando un cencio centrifugato anziché un giovane (?) virgulto pronto per azzannare la giornata come prossima profumata preda.

I sogni, poi, sono parzialmente indipendenti dal nostro lato conscio (peraltro rullocompresso da molteplici circuiti), e si popolano di strane situazioni dove immaginiamo circuiti di training da affrontare nella realtà, nei stessi sogni e in quel breve periodo tra sonno e veglia dove tutto è possibile e nulla quasi mai si avvera. 

Ne elenchiamo solo alcuni - ispirati alla mitologia norrena - per vostra informazione, referenza futura e oscuri presagi di prossime sventure.


Circuito Thor:

Dopo una sequenza impressionante di flessioni seiken e torture di Tullio, imposte in maniera seriale, non si fa pausa e tutti gli avventori, avventurieri e studenti Shinseikai vengono colpiti - vivi, ovviamente - con degli enormi martelli in pietra vulcanica nelle tre zone-obiettivo dei mjolnir che sapientemente attendono il turno di ogni malcapitato: gedan, chudan, jodan. Alla fine del circuito ti accorgi che non erano i martelli di Asgard, ma le gambe del Sensei rosso.

Circuito Loki:

Circuito ingannatore e foriero di tradimento e astuzia. Inizia piano, con sequenze di addominali e piegamenti, poi aumenta in maniera repentina con esercizi di potenziamento, fino ad arrivare ad una annunciata pausa di 5 minuti. Che non sono tali (scherzetto!), perché si ricomincia subito con 10 minuti consecutivi di burpees con salto atletico finale e camminata sui carboni ardenti.

Circuito Odino:

Circuito per anziani, sembra un circuito tranquillo e alla portata di cinquantenni pavidi e così viene eseguito fino a che viene paventato il Ragnarok, dove i cinquantenni panzuti vengono chiamati alla battaglia finale (il kumite) che consentirà loro di combattere, morire e rinascere come cinture bianche. Shinseikai, ovviamente.

Circuito Hockenheim:

Combinazione dei circuiti Thor, Loki e Odino, ma eseguiti con una media di 311 Km/h senza KERS, senza bandiere gialle e pit-stop per cambiare le gomme che, ovviamente, sono state efficienti solamente il primo giro.

Meglio non lamentarsi. Ci potrebbe capitare un circuito Inferno di Dante Alighieri, e si potrebbe non uscire a riveder le stelle...



Friday, September 6, 2013

Tante Scuse - A repost.


Visto l'imprinting dell'anno accademico Shinseikai 2013-2014, ripropongo un post scritto nel 2010.
Alcune cose cambiano, altre no :).
A voi.


Siamo stati creati (dalle divinità o dalle condizioni mutevoli dell'universo, a seconda dei propri orientamenti) per crescere, riprodurci ed inventare scuse. Nonostante l'esperienza, l'educazione, la cultura, l'ambiente ed altri fattori che mescolano continuamente le nostre ragioni d'essere, continuiamo a portare con noi la nostra Knowledge Base delle scuse alla quale attingere per rimandare il momento della verità, sia esso un allenamento, un esame, un momento di introspezione, una visita alla suocera, il colloquio con il capo, un incontro con un cliente, un incontro con un fornitore, un incontro fugace e dispendioso con il commercialista.

La vita ci mostra, tutti i giorni, che ci sono persone che lottano per avere quello che noi diamo per garantito. A volte non ci accorgiamo di queste persone, troppo occupati con la testa persa nei nostri pensieri piccoli. A volte la vita ci comunica direttamente quanto è dura la lotta per avere un giorno in più, un colloquio in più, una visita in più, un'occasione in più. Una lotta per un pezzettino di vita in più.

Pensando proprio a questo ed in particolare a queste persone, in mezzo a questa notte insonne, ecco le domande: perché non iniziare a costruire l'archivio delle scuse che, rilette il giorno dopo, ci fa sentire piccoli come i nostri pensieri? E quali sono le classiche scuse interiori per evitare (esempio a caso) un allenamento già programmato?

"No, perché oggi piove e non si trova parcheggio".
"No, perché non mi sento al 100% [un classico]".
"No, recupererò la prossima volta".
"No, con l'occasione mi compro delle nuove scarpe da training".
"No, è troppo freddo."
"No, è troppo caldo."
"No, oggi proprio non ce la faccio".
"No, mi fa male il/la [inserire parte del corpo]".
"No, se mi alleno oggi sento che mi farò male".
"No, tanto stasera mangerò poco".
"No, l'ho già fatto ieri".
"No, ci andrò domani".
"No, ho l'iPod scarico".
"No, ho l'iPod carico ma la musica non va bene".
"No, non ho l'iPod".
"No, non mi va".
"No, mi andrebbe ma non ho tempo":
"No, mi andrebbe ma sono stanco di testa [sic]".
"No, domani avrò una giornata faticosa".
"No, ho gli indumenti da training da lavare".
"No, ho gli indumenti da training da stirare".
"No, questa settimana mi sono già allenato n volte [n da 1 a 6]".
"No, e mica sono un professionista!".
"No, non ho rinnovato l'abbonamento e se mi beccano mi scotennano".
"No, ho sonno."
"No, ho troppa voglia di allenarmi e quindi meglio aspettare [!]".
...
Le combinazioni sono infinite, e tutte sbagliate. Propongo la compilazione di una EKB (Excuses Knowledge Base) liberamente consultabile ed aggiornabile via web. Ogni buona scusa sarà inserita nelle migliori dell'anno, che saranno rilegate in libro hard-cover (niente di erotico, per quello ci sono altre categorie di scuse) e distribuito da Fanfaroni Editore.

Meglio andare a dormire. Alle deità dei combattimenti e degli arti doloranti piacendo, domani ci si allena.

Monday, September 2, 2013

Another Life

Domani inizia un nuovo anno accademico Shinseikai.

Fatica, sudore, sfida, soddisfazione, rimpianto per non aver iniziato prima, consapevolezza del proprio disfacimento fisico, sensazione di inadeguatezza, speranza di risalire la china, incitamento dagli studenti, obiettivi impossibili, piccoli successi, fallimenti di prammatica, persone che lasciano il Dojo, persone che si aggiungono al Dojo, persone che sono indivisibili dal Dojo, meccanismi di difesa, errori che puoi evitare, errori che non puoi evitare, errori che cercherai di evitare... quanti pensieri si affollano cercando un percorso, un ordine apparente, senza trovarlo!

Per me è il quinto anno. Il quinto anno Shinseikai. Il quinto anno di questo blog. In pratica, sono in quinta elementare, con la prospettiva di migliorare, resistere, e soprattutto apprendere. Tra qualche anno potrò - con orgoglio - passare dal Karate delle elementari al Karate delle scuole medie.

Forse la chiave di lettura è tutta lì. Apprendere. Imparare cose nuove, studiare cose che pensi di sapere e che non sai, praticare quel poco che sai cercando di perfezionarlo, poco alla volta. 
Studente per tutta la vita. 
Una prospettiva che - personalmente - mi trova più che felice. Per quanto mi riguarda, preferisco essere l'allievo di tanti maestri che il maestro di tanti allievi. C'è spazio per crescere. In questa vita non c'è spazio per essere considerato esperto, o maestro

Sarà per la prossima.
:)

Monday, July 15, 2013

Welcome to the Machine

Intro

Test, prova, 1-2-3
L'apparecchio, anche se vecchio, dovrebbe ancora funzionare.
Spero che la registrazione vocale sia attiva. Debbo sbrigarmi, non c'è più molto tempo.
...
Affido queste ultime memorie ad un teledittafono, nell'attesa che il tutto sia completo, e che il processo iniziato mesi fa possa finalmente giungere al suo epilogo. Ogni millisecondo che passa è un piccolo scatto verso la conclusione.
C'è del buffo in tutto questo, però. Ho sempre prediletto le parole, e poco i numeri. Mi riesce difficile pensare alla scoperta di un nuovo numero primo come un evento degno di essere considerato tale, e ritengo che la nascita di una nuova parola, invece, sia equiparabile alla nascita di una nuova vita - e una vita di successo se la parola verrà ricordata, e trasmessa come un patrimonio genetico fatto di talento ed una miscela di novità ed esperienza. 
Eppure, adesso che le parole mi sono necessarie, non posso pronunciarle correttamente. L'evidenza mi suggerisce che non si tratta di una questione emotiva, ma semplicemente la logica prosecuzione di quanto successo finora. Quel che farò è rileggere le pagine del mio diario, che ho preventivamente attivato fin dall'inizio di questa storia. Mi farà bene. Qualsiasi cosa queste parole abbiano voluto dire nel mio passato.

22 Febbraio - L'inizio/indizio

Oggi è successo qualcosa di strano, che non riesco a spiegare. Ho passato gran parte del tempo a controllare, ricontrollare e scrutare da vicino - almeno superficialmente - alcune goccioline di materiale fuso che ho trovato nell'area della mia scrivania, al lavoro.
Lucide, lisce, piccole sculture argentee che mi hanno ricordato le gocce di stagno fuso che si staccano dal saldatore durante i comuni lavori elettrotecnici. Ne ho staccate un paio per valutarne la composizione del materiale e la durezza, e ho subito pensato all'utilizzo della mia scrivania come tavolo da lavoro da parte di qualche collega (quello delle riparazioni, magari). Mi sono diretto immediatamente verso il presunto reo con fare accusatorio, per ricevere solamente uno stupito diniego ed una alzata di spalle, entrambe giustificate dalla regola che vieta l'utilizzo di saldatori elettrici o a gas nel nostro ambiente open-space
Tornato al mio poggiavambracci, ho continuato a guardare le goccioline pietrificate per poi subito dimenticarmene, assalito da telefonate di venditori ciarlanti, urla ed afrori di colleghi vicini e movenze subdole dei soliti leccapiedi il cui unico scopo delle prime due ore lavorative è quello di capire se il Capo dei Capi verrà in ufficio in giornata odierna, per poter strutturare meglio le attività recondito-umettatrici. Insomma, la solita solfa.
Ho un piccolo fastidio sotto l'avambraccio sinistro, forse un livido a testimonianza della lezione di Karate della sera prima. Slaccio la manica della camicia per rilevare l'entità dell'ematoma e associarlo alla persona erogatrice, ma con mia sorpresa trovo solo una piccolissima ferita, rimarginata, che comunque inputo al Karate.
E, ignaro, non metto in relazione una cosa con un'altra. 

13 Marzo - Simmetria

54'22". Cinquantaquattro minuti e 22 secondi. Credevo fosse una semplice coincidenza, adesso credo sia qualcosa che non riesco a spiegare. 
Le lezioni di Karate sono in pausa per due settimane, in attesa che il Dojo venga ripulito dall'allagamento dei giorni scorsi, e ho ripreso - con piacere - a correre vicino all'ufficio, la mattina presto. Una corsa sciolta, senza particolari velleità se non quelle di far rimanere il corpo in movimento e lasciare i miei pensieri in libertà. Ho iniziato lo scorso mercoledì, partendo dall'ufficio, passando per il parco della Musica e per viale Europa, attraversando il laghetto dell'Eur e poi tornare indietro. Ho controllato il tempo, 54 e 22. Venerdì ho rifatto lo stesso percorso, con caratteristiche atmosferiche simili. 54 e 22. Stamattina ho corso. Alla fine, fermando il cronografo, non potevo credere ai miei occhi. Ho immediatamente pensato ad un guasto del mio orologio-localizzatore da corsa, e sono subito andato in rete per controllare le rilevazioni geografiche ed i tempi. Identici.
Le coincidenze esistono, sapete come la penso, e "accade quel che accade" è il mio motto. Probabilmente il GPS dell'orologio è andato in tilt, domani proverò con un altro dispositivo.

31 Marzo - Il segno

In realtà di dispositivi ne ho provati tre (Garmin, Nike e RunKeeper, un'applicazione per iPhone), in tre sessioni diverse e sullo stesso percorso. I tempi sono uguali, al centesimo di secondo. La cosa mi inquieta, ma è ben poco rispetto a quanto ho scoperto ieri mattina.
Uscito dalla doccia-sveglia, ho notato - in corrispondenza del tricipite brachiale destro, una macchia, un riflesso più scuro sulla porta della doccia ancora coperta d'acqua. Un solito livido post-Karate, ho creduto. Mi sono avvicinato allo specchio e ho visto una specie di tatuaggio regolare che copriva parte del mio braccio destro. Il cuore mi è salito in gola. Non mi piacciono i tatuaggi. Ho riesaminato mentalmente le mie azioni dei giorni scorsi, e non ho percezione di mie visite in botteghe dove ci si fa bucare l'epidermide con aghi intrisi di inchiostro né di colossali bevute che mi hanno convinto a investire soldi e tempo in attività decorative esteriori. 
Con le mani tremanti ho preso una lente di ingrandimento e ho iniziato a guardare meglio. Ho subito capito che non avevo un tatuaggio, ma parte della mia pelle si era trasformata in segmenti esagonali piccoli e regolari, che al tatto avevano la forma di scaglie, morbide, argentee e - a quanto pare - resistenti a qualsiasi tipo di shampoo o sapone che avevo a disposizione nella sala da bagno. 
Il mio primo impulso è stato di chiamare il medico di famiglia. Un geriatra rincoglionito che non chiamerei neanche per un mal di testa finto. No, meglio desistere, e aspettare di capire cosa sta veramente succedendo.
Devo pensare ad occultare questo segno dove possibile, magliette e camicie a maniche lunghe, evitare indumenti chiari. Niente di difficile per me.
Sono preoccupato.

28 Aprile - Il bambino

Rispetto al mese scorso, quel segno-tatuaggio si è esteso a gran parte del corpo, escluse mani, piedi e testa. Tra un paio di settimane arriverà il maledetto caldo mediterraneo, e dovrò escogitare qualcosa per nascondere il cambiamento di cui sono vittima e di cui non capisco provenienza e scopo, anche se - probabilmente - vista la progressione con cui il mio corpo e la mia mente stanno cambiando, offuscare la trasformazione della pelle sarà uno solo dei problemi a cui sto andando incontro. 
Due giorni fa ho avuto evidenza anche del mio cambiamento interiore. Uscii da un centro affari vicino al lavoro, e proprio davanti a me un bambino si liberò dalla mano della madre e, scappando, inciampò su un dosso del marciapiede rovinando a terra davanti ai miei piedi. Guardai il bimbo in lacrime, con mani e ginocchia scorticate e - pian piano - sanguinanti, e non mi mossi. Non lo aiutai, lo esaminai. Considerata la velocità, il peso, il momento di forza e le caratteristiche di abrasività del terreno non calcolai particolari rischi di fratture o di danni maggiori per il bambino. La madre ci raggiunse, raccolse il piccolo e mi rovesciò uno sguardo di odio profondo, chiedendo perché non avessi soccorso l'infante. Non risposi, non mi sembrava importante. Il piccolo aveva ricevuto solo danni superficiali, e non per mia responsabilità. Continuai a camminare come se nulla fosse successo, ignorando le invettive della donna.
Nella mia memoria erano presenti però, tutti quei valori che ero riuscito a collezionare nell'istante della caduta. 

14 Giugno - Fuga

Da quando ho scoperto che alcune scaglie argentee si stavano propagando dietro le orecchie e sulle mani, ho preso contromisure logiche: ho anticipato le ferie estive, lasciando la necessaria copertura al lavoro, e ho annunciato a casa una mia trasferta all'estero di qualche settimana. Questo dovrebbe lasciarmi un margine sufficiente per valutare l'intero processo di trasformazione in cui sono immerso, mio malgrado. Dopo l'aspetto esteriore e la decrescita emotiva, sto percependo altri importanti cambiamenti: il respiro regolare come un mantice d'orologio, la necessità del sonno praticamente annullata, la scomparsa delle deiezioni. Un solo, continuo, incessante dubbio attraversa la mia mente ed il corpo che da carne sta virando a metallo: perché?

Epilogo

Test, prova, 1-2-3
La trasformazione è - in pratica - completa. Non credo siano rimaste tracce organiche nel mio complesso meccanico, e se ci sono, non riesco a percepirle. Ormai non evito più gli specchi, e, controllando la situazione, il mio volto, le mie mani e il resto del mio corpo è mutato in metallo scuro. Sto passando queste ultime ore cercando una spiegazione, senza trovarla, ma non sono più preoccupato della mia condizione, anzi. 
L'umanità residua appartiene al passato, il futuro è la regolarità, la logica, l'analisi dei dati. 
Tra poco potrò celebrare il passaggio da uno stato di confusione ed anarchia ad uno stato di perfezione geometrica. 
Potrò raggiungere le più alte vette della logica. 
Potrò finalmente dare una scossa ad una lenta, inefficiente, dolorosa evoluzione animale. Potrò cessare di vivere.
E, soprattutto, potrò funzionare correttamente.

Tuesday, June 25, 2013

Melissa's Birthday - A repost.


Melissa.


Non ricordo come tutto è iniziato. Anzi, lo ricordo benissimo.

Incontrai Melissa qualche tempo fa, mentre passeggiavo in una zona centrale della mia città, era caldo ma non troppo, c’era il sole ma non troppo, c’era gente ma non troppa, l’aria mossa ma non troppo. Ricordo una coppia di pensionati che trascinavano le zampe di chi è stanco, lasciando dietro di loro un binario di gelato al cioccolato che si scioglieva, ma non troppo, mentre cercavano di schivare i banconi dei venditori ambulanti e lo sciame di avventrici che rovistavano i capi d’abbigliamento ben ordinati e disposti come una tipica fila italiana davanti ad uno sportello delle Poste.

Non mi chiamò lei direttamente, ma si fece sentire. Era più giovane, ma con lo stesso caratterino. Voi non conoscete Melissa, io si. Il sorriso di Melissa ha il riflesso di mille iceberg scintillanti e non contaminati dal buco dell’ozono, la sua camminata è un passo di danza, il suo scatto è quello del Borzov dei tempi andati prima che iniziasse a doparsi, le sue battute taglienti come trappole per lupi marsicani. Una volta le dissi: “Non andare al limite, perchè ti farai male”. Lei mi rispose: “Pensa per te, ‘che non ti reggi in piedi, stupido bipede monodotato”. Dal tono medieval-Kantiano capii subito di avere a che fare con un cipiglio ribelle gentilmente depositato su un labirinto di voglia di vivere, frammisto a sprazzi di genio e di gentil depressione. E m’interrogai per giorni sul monodotato. Ma sto andando fuori tema.

Dicevo, si fece sentire lei. Fui sorpreso dapprima, ma dopo 16 minuti non lo ero più. Lei era li, mi invitava da qualche parte, ma dopo pochi istanti voleva fare qualcos’altro. E io perdevo la pazienza, o almeno si capiva dai miei intermittenti sbuffi nasali abarth. Voleva autonomia ma essere seguita, voleva l’acqua ma anche il vino, voleva tutto e niente, profumi e balocchi, viaggi e dormite, voleva luce solare e tenebroso buio.

Poi decise che non poteva continuare a vivere da sola, anche se le Melisse sono primati molto selettivi e scelgono con cura le proprie compagnie. Prese una giraffa (all’epoca più piccola, ora il suo collo la sovrasta di una Melissa e mezza) e la spupazzò, la allevò con molta tenerezza e dedizione, e con la giraffina (in divenire un Giraffone) si mise alla ricerca della propria identità.  Le chiesi più di una volta cosa stesse cercando, ed ogni volta, in forma anglobarocca, mi rispose: “None of your business, traballante tondino pieno di boria e foriero di consigli non richiesti”. Dal tono sicumerico-introspettivo, capii che il caratterino non le era cambiato affatto, e che il labirinto di voglia di vivere era diventata una città tentacolare, variegata di fantasie veloci ed accelerazioni emotive oltre la velocità del suono. Ma sto ancora andando fuori tema.

Negli anni che seguirono, adottò altri due compagni di strada, che la seguivano quasi sempre e con poca manutenzione a carico: qualche pasto caldo e un giaciglio. Il primo era un extraterrestre proveniente da Arcturus, alto la metà di lei, con denti auguzzi, peluria di verso variabile e cipiglio analogo proporzionale all’altezza (interminabili discussioni, ma divertimento garantito). Il secondo company pet era una bambola bionda automatica ancora più bassa dell’ufetto dentiaguzzo e che essenzialmente aveva due modalità operative corrispondenti a due bottoni pigiabili sulla schiena: Pipa e Lagna. La modalità Pipa attivava l’automa spostando il dito pollice destro all’interno del cavo orale e stimolando l’atto del succhiare (facendo la mossa della Pipa, appunto). Tale modalità poteva solo essere interrotta dall’attivazione della modalità Lagna, dove la bambola scoppiava in un pianto dirotto e stavolta sproporzionato rispetto alle sue effettive dimensioni.

Alle volte potevi trovare Melissa, il Giraffone, l’alieno e la bambola passeggiare per le vie del centro, e Melissa non era certo tenera con tutti e tre. Ma era paziente. Il Giraffone voleva l’erba, e poi non la mangiava, e Melissa si industriava per inventare situazioni che stimolassero i pochi succhi gastrici del quadrupede. L’alieno (chissà in base a quali condizioni) lanciava strali verbali incomprensibili, o richieste formulate al contrario, e Melissa cercava di decodificarle, e di soddisfarle se possibile. La bambola ogni tanto era difettosa, si bloccava sulla modalità Lagna e ogni volta Melissa le dava una saracca sulla schiena per riportarla alla modalità Pipa.
Quando succedevano tutte e tre le cose insieme Melissa andava in conflitto di interessi (soprattutto il suo) e iniziava a ballare il tango elettrico argentino suonato a volume 16 su 10, che quindi sembrava una sinfonia di undici chitarristi metallari rinchiusi a vita in una prigione segreta e poi fatti uscire per 15 di minuti di assoluto relax.

Poi Melissa cambiò piano dimensionale, e non ebbe più la compagnia al seguito. Un giorno si chiuse nel suo appartamento, studiò testi di filosofia e statistica, di sociologia delle masse ed epistemologia delle messe, studiò l’intera opera di Alberoni, ne staccò delicatamente ogni pagina e la riciclò in sala da bagno, lesse la Bibbia, il Corano, il Necronomicon, i Racconti Romani di Moravia e le allegre poesie di Leopardi. E i mesi passarono. E Melissa studiava. Studiava l’impero Romano e l’impero Berlusconiano, il Medioevo e il Nuovoevo, il Paleolitico e le nuove dittature. E mesi su mesi passarono, lenti come un film di Sergio Leone visto sotto acido. E Melissa continuò a studiare, come per estinguere un’inarrestabile sete di sapere. Studiò economia e finanza, italiano e inglese, gastronomia e scienza dei razzi, etica e cibernetica. Fino a che, in una bella giornata di primavera, usci sul balcone, respirò a fondo, e disse sottovoce: “Mi sono rotta i coglioni”. Dall’espressione artistico-ermeneutica, capii che era in atto un altro cambiamento. E che la città tentacolare che rappresentava la sua voglia di vivere era diventata un universo, dove i corpi celesti dell’intuito, della spontaneità e dell’esperienza si attraggono e respingono con leggi Maggiori ancora non conosciute. Ma oramai sono sicuramente fuori tema.

Quando partì per il suo viaggio mi lasciò un biglietto, che ancora conservo tra le mie cose più care. Da allora non ho più avuto il piacere di guardarla, di vederla muoversi come un principe tra i principi, di notarla appena mentre fluttuava da una situazione all’altra. Voi non la conoscete Melissa, io si. Come acqua di fonte. Può gelarti come acqua di fonte d’estate, e ristorarti come acqua di fonte d’inverno. La sua lealtà verso le scelte è stata d’esempio anche a persone che hanno il doppio della sua età, come una memoria che riacquista colore al variare dell’intensità emotiva. Che ti riempie, ti pervade, e dentro diventa viva come una bestia senza nome fatta di spine ed anche di velluto. Ma oramai il tema è quasi finito.

Ancora oggi, alle volte, mi pare di intravederla, tra la folla. La seguo, ed una volta raggiunta, scopro che invece di Melissa c’è un’altra persona con occhi di bovina espressione e voce di capresco ciarlare. E anche se la sua assenza mi colpisce, le mie mani sfiorano, ancora, lo scribacchiato fogliettino-reliquia ormai consunto e ridotto ad un velo. Non ricordo quel che c’è scritto. Anzi, lo ricordo benissimo:
           
            “Il mondo è troppo piccolo per me.”  

Thursday, February 28, 2013

Haiku

Il Dojo

Ogni volta che manco
un tassello scomparso:
inseguo il sapere.

Saturday, February 16, 2013

Gravistelle

Quando esegui i Kihon (le basi del Karate), i Renraku (le combinazioni) e lo Yakusoku Kumite (lo sparring controllato ed alternato tra gli esecutori), molti di noi hanno paura dei buchi neri, definizione che ho volentieri ascoltato e carpito nello spogliatoio a fine lezione. 

La definizione di buco nero (black hole, originariamente chiamato dark star o black star), nel contesto della pratica del Karate, si traduce in una temporanea immobilizzazione della mente e delle associate funzionalità logiche che, a causa di diversi elementi tra loro combinati (quali: tensione, stanchezza, rigidità, mancanza della dovuta concentrazione, ossigenazione corporea), portano all'esecuzione non corretta (o alla non esecuzione) di un comando impartito durante una lezione o un esame. La paura di sbagliare è il catalizzatore che accende l'infernale mistura di agenti, e la mente va in blocco. Se la mente va in blocco, il corpo non può muoversi, e quindi si sbaglia: un circolo vizioso che è bene non riprodurre durante una lezione, durante un esame, durante la vita.

Gli astrofisici Mazur e Mottola, recentemente, hanno proposto la teoria delle gravastar (forse traducibili come gravistelle), che si differenziano dai buchi neri per la presunta esistenza di una crosta di materia iperdensa che racchiude una bolla sferica di energia oscura. Se volete maggiori ragguagli, chiedete a loro, non a me. Io abito a Casalotti.

La metafora delle gravastar - credo - si adatti meglio all'inceppamento che può capitare durante la pratica delle tre aree sopra nominate. Fuori rigido e iperdenso, dentro energia oscura. La denominazione  esatta di quello che è scorretto nell'esecuzione delle tecniche richieste.

Sto rimuginando da stamane su come evitare i buchi neri o le gravistelle. Poi mi sono rilassato, e ho pensato: forse non puoi completamente evitarle. Possono comunque essere presenti per fattori che dipendono da te, o da altri, o da imprevisti. Alle volte è la stanchezza che fa brutti scherzi. Alle volte l'emozione è una serie di falangi che ti stringono la gola. Credo sia più importante gestirle. Se sei preparato a ricevere un evento gravistellare, forse riesci a gestirlo, a non rimanere fermo come uno stoccafisso sotto calcestruzzo. Anzi, preparati per il peggio. I momenti gravistellari arriveranno comunque, e tu dovrai reagire e gestirli. Se non verranno, tanto meglio, ma credo sia meglio rimanere sul chi vive. 
Le gravistelle, durante un esame, dipendono da te. Nella vita, ahimè, possono dipendere da altri.



Thursday, February 14, 2013

Nando, il Karate e i cambiamenti

Nando è un ragazzo che lavora in un bar, vicino l'ufficio. Non credo che sia il suo vero nome, ma lo ha così riportato sulla maglietta personalizzata con il logo del datore di lavoro e con questo nome tutti lo chiamano, in allegria. 

Ha tratti somatici non europei, tra il medio e l'estremo oriente, e chiunque lavori nei paraggi lo conosce grazie alla sua efficienza e gentilezza. Non solo, lui riconosce tutti gli avventori del bar in questione grazie ad una prodigiosa memorizzazione dei loro gusti, abitudini, tic, compagnie ed altri dettagli utili ad una perfezione continua del servizio di caffè, cornetti (per gli amici al di là del Tevere: brioches), spremute e altri mezzi temporanei di sostentamento psicofisico.

Le sue qualità hanno del soprannaturale: dopo un rapido periodo di addestramento (1 - 2 settimane), appena varchi la soglia del locale di ristoro Nando ha già in macchina il tuo Normale/Decaffeinato/Al Vetro/Marocchino/Ristretto/Lungo/MacchiatoFreddo/MacchiatoCaldo/Schiumato/Già Bevuto. Il Dott. McGorman, dell'università di Los Angeles, lo sta studiando come esempio di capacità predittivo-telepatica congenita.
Una delle ipotesi è assumerlo nella mia (vostra) azienda, ma ha importanti controindicazioni: molte (troppe) persone si troverebbero senza lavoro grazie alla sua efficienza.

Eppure, due giorni fa, Nando (ebbene sì) ha sbagliato.

Mi sono avvicinato alla porta del luogo dove lavora ed immediatamente l'energia sconosciuta di cui è dotato l'ha messo al lavoro: arrivato al bancone mi ha servito un decaffeinato ed una spremuta d'arancia, l'accoppiata liquido-aeriforme che rende le mie prime ore di ufficio ancora più gradevoli. Io volevo semplicemente un tè, ma il suo sguardo costernato mi ha fatto sentire colpevole di tale variazione e ho consumato comunque l'ordinazione esotericamente captata nell'etere.

Nando, insomma, a volte non gestisce l'imprevisto.

Perché Nando? Qual è il busillis? E cosa c'entra con il Karate? 
Nando è un personaggio reale, e anche una metafora. Il punto da ricordare è proprio l'adattamento alle mutate condizioni: puoi essere mediocre, discreto, bravino, bravo o eccellente nella riproduzione meccanica di qualsivoglia attività o arte,  ma devi gestire il cambiamento con la stessa prontezza ed efficacia. Se non sei addestrato a farlo, sono guai.

Nel caso di Nando, una semplice ordinazione sbagliata. 
Nel Karate, può andarti molto, molto, molto peggio.

Monday, February 11, 2013

Ne basta una.

Chi è sfortunato, non ne ha trovata neanche una. Oppure non ha saputo o potuto accorgersi che passava a 3 millimetri di distanza, e ha perso l'occasione.

Chi è fortunato, ne ha trovata una. Forse a scuola, o durante le attività extra-scolastiche. In gruppo con gli amici. Da solo. Per caso, o fortemente cercata e poi trovata.

Chi nasce sul pianeta Fortunia, dove le occasioni da Gastone Paperone (Gladstone Gander) si susseguono con ritmi non sostenibili sul terzo sasso dal Sole, in genere ne ha incontrate molte. E in diverse parti e tempi della propria vita. E, vetta delle vette, pinnacolo dei pinnacoli, le ha trovate in tante discipline diverse, che hanno reso la vita del favorito dalla sorte un unico miscuglio di esperienze belle e sempre nuove.

Mi rendo conto, oramai da tanti anni, che faccio parte della terza categoria. Quella dei Gastoni Paperoni. Peraltro, Gastone Paperone (con buona pace del geniale Carl Barks) mi è stato sempre sui cogl antipatico a morte, poiché riteneva la sua fortuna connaturata al suo personaggio, e quindi sprezzante, distante e deus ex papero

Di cosa stiamo parlando? Di persone che ti trasmettono passione. Con gli occhi, con la loro maestria, con la capacità di coinvolgerti ed ispirarti a fare cose. A pensare. A spostare l'obiettivo sempre più distante, in maniera palese o inconscia.

Sono stato molto fortunato. Credevo che il Gastonismo fosse legato alla gioventù, ad una più fresca capacità di apprendere, ad una migliore disponibilità del tempo libero. E invece, quasi a cinquanta autunni, continuo a trovarne di nuove. Nell'avventura del Karate, nella scrittura, nella musica, nell'affrontare la vita. Se poi la Signora Fortuna riprenderà tutto con gli interessi, questo può essere ruotato nella categoria "Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare". Ma non importa, va bene così.

L'importante - nella vita - è averne incontrata almeno una. 



Wednesday, February 6, 2013

Pensa obliquo.

La vita non è solo abbracci ed amicizie ed affetti. E' fatta anche di persone che ti vengono incontro - dirette - per colpirti o cercare di farlo, in modi visibili o meno. Con questa seconda categoria di mammiferi devi pensare obliquo. 

Andresti mai incontro - muso contro muso - ad un toro infuriato, ad un treno in corsa, ad un gigante ubriaco appena uscito da un Pub con la voglia di menar le mani?

Non credo, a meno che:

a) Il gigante ubriaco sei tu e ti stai guardando allo specchio.
b) Normalmente vai in giro con armature costruite in ghisa medievale.
c) Sei diretto discendente di Leopold von Sacher-Masoch.

Non hai scelta. O ti disintegri contro l'avversa forza motrice oppure pensi obliquo. Puoi utilizzare il Sabaki. E per le seguenti ragioni:

  • E' gratis: se lo utilizzi non sprechi energia aggiuntiva. Probabilmente la spenderà il tuo avversario per evitare le difficoltà dovute a imperfetta visione dell'opponente e posizione scomoda.
  • E' efficace: se riesci ad uscire - con un Sabaki - dall'area diretta di attacco ti ritroverai comunque in vantaggio, senza far capire molto alla persona con cui stai discutendo di Karate.
  • E' vantaggioso: puoi usarlo non solo sul tatami e nel Dojo, ma anche nella vita. Le persone che ti attaccano - nella vita - non sempre sono percepibili come tali. Spesso ti sorridono, e dietro hanno un bastone o un coltello. Spesso ti parlano in maniera confidenziale, a lasciar intendere che puoi fidarti di loro. Spesso aspettano un tuo passo falso per attaccare in maniera poco chiara.
Nei momenti di difficoltà, pensa obliquo. Utilizza il sabaki. 
Cerca di ricordarlo. 
Forse non ti restituirà il sorriso, ma potrà aiutarti ad evitare quel toro infuriato, quel treno in corsa, quel gigante ubriaco. E, più di tutti, quella forma di vita basata sul carbonio che trattavi amabilmente e che invece, dietro la schiena, nasconde un'arma di offesa.









Friday, February 1, 2013

Kihon, Renraku, Memoria e Magone


La memoria è un dispositivo prodigioso. 

Quando un ricordo ti abbisogna, vieppiù urgentemente, le query sul tuo database hanno bisogno del systems engineer di turno per risolvere i timeout di default  - che impietosamente sono già stati estesi grazie (!) all'età. 

Quando invece riesci a rilassarti per quei quattro o sette zeptosecondi, le query iniziano ad articolarsi con codice SQL, non conosciuto a priori, dove le select for update fluiscono come stormi di gabbiani che inseguono la Tippi Hedren nel famoso - e impossibilmente bello - film di Hitchcock. 

Per i non-informatici o gli odiatori dei nerds, il suddetto concetto può essere espresso come:
"la memoria funziona bene quando non ti serve".

E proprio in un momento di non urgenza il mio DB  - poco relazionale, sono un tizio riservato - ha tirato fuori un ricordo degli esercizi che si facevano a scuola, alle elementari. Rammentate? Si prendeva un quaderno con i margini e la virago maestra di turno ti imponeva di scrivere una ed una sola lettera. E si iniziava, con sbuffi e pazienza che si prendevano in giro l'un l'altra a scrivere

a a a a a a a a a a a

badando bene alla calligrafia, alla posizione della penna gialla uguale per tutti e soprattutto a non superare (MAI superare) il margine destro, altrimenti la matrona maestra toglieva un punto. I punti erano dieci, quando si beccava il sette erano lacrime amare. Anni dopo, per un sette avresti fatto cose da  chiamare Godzilla come avvocato penalista.

C'era il giorno delle a, poi quello delle b e così via.
Poi, quando una delle sinapsi (una delle ultime rimaste, sole survivor) ha funzionato come per un magico canto del cigno, ho capito il perchè di questi ricordi.

I Kihon.

Ogni a è un movimento ed una tecnica, ogni b è un altro, fino ad arrivare alla z. E poi le sillabe.

I Renraku.

Si scriveva ab ab ab ab ab ab senza MAI superare il margine destro. I Renraku come fondamentali combinazioni di fondamentali (consentitemi la ripetizione).

Kihon, Renraku. Le basi della scrittura del Karate. Quello che serve per andare avanti, studiare posizioni, tecnica, strategia, respiro, resistenza, e soprattutto spirito. Scriviamo lettere e combinazioni di lettere per anni, poiché solo dopo anni, e tanti, si può iniziare il vero studio del Karate.

Ho chiesto in giro. Sembra che i bambini di oggi (almeno, non tutti) non riempiano le pagine di letterine. Forse i più fortunati le digitano sul loro iPad.
Ho il magone. Non è la stessa cosa.

Wednesday, January 16, 2013

La poesia dei Kihon

I Kihon sono le basi ed il supporto su cui si fonda il Karate antico e moderno. Una tappa obbligata (e, a mio avviso, piacevole) per chi decide di imbarcarsi in un'avventura esplorativa delle discipline marziali giapponesi. 

Praticando una disciplina a contatto pieno, però, vengono subito alla mente quelle differenze tra la versione 'fondamentale' - rappresentata durante le lezioni e durante la sollecitazione della memoria neuromuscolare - e quella dinamica, applicata soprattutto durante il Kumite - il combattimento - la forma espressiva più alta, più complessa, forse più difficile del Karate. 

Ad un occhio inesperto (ad esempio il mio), le tecniche fondamentali e quelle applicate, nel Karate Shinseikai, possono sembrare molto diverse. Un comando di Oi-Tsuki (pugno con braccio avanzato), nella versione classica, parte dalla posizione di Heikō-dachi con un bellissimo movimento che ricorda lo  scoccare di una freccia da un arco naturale fatto di mani e braccia. La stessa tecnica, applicata in combattimento (lo Shinseikai è un Karate 'aperto', dove è possibile misurarsi su diverse discipline, alcune delle quali ammettono i colpi al viso con i guantoni), ricorda molto di più una posizione di attacco misto a difesa, con il mento basso ed il colpo che parte dalla posizione di guardia e sfrutta tutto il peso del corpo mentre l'altra mano protegge il proprio viso, per poi rientrare a velocità ancora maggiore nella posizione di guardia.

Ieri sera, subito dopo le lezioni, cercando di spiegare questa apparente distonia tra le due tecniche, ho pensato alla metafora del poeta. E' forse possibile far fare alle proprie parole una Grand Jeté, dividerle in sonetti rispettando rime e metriche, e farle rincorrere in un girotondo di emozioni senza aver appreso - con impegno e passione - le regole della lingua scritta e parlata? E poi, adattare tali regole per comporre qualcosa che nessuno ha ancora scritto?

Così come la poesia è legata a doppio filo alle regole sintattiche e semantiche della propria lingua (non solo per seguirle, ma anche per trasformarle ed adattarle al contesto), i Kihon sono legati a doppio filo con la versione dinamica delle tecniche utilizzate in combattimento. I Kihon sono poesia, che in combattimento diventano una poesia bella e mortale.

Sunday, January 6, 2013

Mai perdonato.


Bambino, su questa terra
e messo in fila, insieme agli altri
osservando il dolore della guerra
e le regole che rendono scaltri

Il tempo passa, il Ragazzo cammina
ed è vittima inconsapevole
della lotta che si avvicina
Ormai Giovane Uomo, ricorda lodevole
il giuramento fatto quella mattina

“Mai da questo giorno in poi avverrà
la privazione della mia volontà”

Ciò che hai provato
Ciò che hai conosciuto
Mai apparse in ciò che hai mostrato
Né libero il sentimento
che non hai mai perdonato

E passa il tempo, e vite spese,
perse inseguendo il niente
come tante candele accese
spente dall’alito della gente.

Anziano, senza alcuna vittoria
La giornata è diventata corta
Una battaglia che oramai è storia
Un uomo stanco a cui poco importa

Il vecchio che si prepara
A morire con rimpianto
Quel vecchio sono io
Con il bambino accanto