Wednesday, March 30, 2011

Sequenza numero quattro.

"Unisci i puntini"

Non ricordo se già l'ho scritto, o se è solo un falso ricordo, ma farò finta che sia un argomento nuovo.
Dai, alzi la mano chi non ha mai impugnato, almeno una volta, la "Settimana Enigmistica". L'apoteosi della reazione. Il trionfo del classico. La letteratura colta del - per fortuna brevissimo - fancazzismo estivo.
Lo comprava la mamma, da lei ho imparato il Cruciverba Sillabico, le pagine per Solutori Abili, il rispetto per il Bartezzaghi e suoi congiunti, i Rebus, le Sciarade, le vignette del Tenero Giacomo e la contemplazione della fotografia in bianco e nero - in prima di copertina - di primati famosi più o meno moderni fotografati con un dagherrotipo. 
Imparavo guardando (lei che scriveva), ascoltando (lei che arrivava alla soluzione parlando da sola) e leggendo (le soluzioni già scritte). Simultaneamente, mio padre scrutava con nonchalance e  sguardo da Polifemo un quotidiano evitando di commentare le notizie.
Cosa mi rimaneva da fare, visto che la rivista ludico-estiva era - quasi - tutta risolta?
Le alternative (poche) andavano dal "Che cosa apparirà?" al "Unisci i puntini". Ed è proprio questa la metafora che ho utilizzato con Luca qualche giorno fa.
Si parlava di Karate. Shinseikai.
Esprimevo la mia perplessa frustrazione - dovuta al noviziato - nel trasferire quanto appreso dalla pratica dei Kihon (le basi: tecniche di pugno, di parata, di calcio, di movimento, di respirazione) correttamente nella pratica del Kumite (l'arte del combattimento). Proprio qualche lezione prima mi era sembrato di vedere un collegamento tra le due attività, durante un Kumite. Quello che ho imparato nelle basi è venuto (un poco più del solito) naturalmente durante lo sparring.
Qualcuno aveva acceso una candela in una stanza enorme e buia. 
Questa illuminazione è durata abbastanza da farmi capire che il collegamento esiste, e si chiama allenamento. La candela, poi, si è spenta, qualcuno ci ha soffiato sopra ed è ritornato il buio del principiante. 
La metafora utilizzata con Luca era proprio quella dell'unire i puntini
Quelle che sembrano tecniche singole (il disegno di un puntino su un foglio) appaiono meno significative se considerate disgiunte rispetto alle altre (gli altri puntini).
I maestri vedono i puntini già uniti, e quindi il disegno risultante. Gli agonisti sono capaci di unire i puntini dal numero 1 al numero 60 in pochi secondi. 
E io?
Passo il mio tempo al Dojo disegnando puntini. Alle volte traccio qualche linea. Quella volta avevo quasi visto una figura, derivata dai puntini che avevo disegnato. Non è durato molto, ma lo ricordo bene. Poi ho guardato una seconda volta, e ho visto solo i puntini. La figura era scomparsa, volata via nell'aere come un papillon de printemps.
Dannazione. Domani porterò i fiammiferi, se la candela si spegnerà farò in modo di riaccenderla.

(riguardo il disegno, il Sensei capirà)





Thursday, March 24, 2011

Honor Thy Father

Figli miei, lasciate che vi racconti di mio padre.
Mio padre era un uomo enorme.
Caracollavo con le mie scarpette da infante inizio anni sessanta, e camminando per la casa mi trovavo davanti un omone che aveva tutto in proporzione. Le mani erano due badili da cantiere, i piedi due portaerei, ed il cappello era grande come una cesta natalizia. Gigantesco, faceva talmente tanta ombra che d'estate non avevo bisogno dell'ombrellone e del cappellino.
Quando parlava era il tuono senza il lampo premonitore. Un suo avvertimento sonoro faceva tremare i pavimenti e spostare i mobili, dando dei continui grattacapi alla mamma che in pochi secondi rimetteva tutte le cose al loro posto. 
Crescevo, ma lui rimaneva un titano.
A scuola andavo mediamente bene, qualche problema con i numeri e qualche soddisfazione con le parole. L'unico tema delle elementari dove fui preso in giro riguardava proprio il mio papà: gli attribuivo un'altezza di sei metri, e quella frase fu vergata in rosso dalla maestra, con due punti interrogativi appaiati. Non riuscii mai a capire il perché di quella correzione: mio padre era alto sei metri.
Crescevo, e lui rimaneva alto come una montagna.
Lo vedevo che usciva prima di me, la mattina. Alle volte con gli occhiali da sole, alle volte con il cappello, con l'aria di chi va a sfidare il mondo. Una volta andai a trovarlo al lavoro: aveva una divisa, e credo - in quell'occasione - di aver visto l'uomo più bello del mondo. Non era solo alto, era anche elegante, ed indossava una specie di medaglia che sembrava d'oro massiccio. Per me era un ufficiale vestito in nero ed oro, e volevo essere lui.
Crescevo velocemente, e mi avvicinavo rimanendo comunque più basso.
L'adolescenza scacciò il bambino che era in me, e lo sostituì con un altro, meno simpatico.
Lui mi guardava, cercava di darmi consigli, suggerimenti e scorciatoie. Io non potevo ascoltare, ero troppo preso da pensieri che riguardavano solo me, e nessun altro.
La fase egotista durò per un po'. Lui era sempre lì.
Crescevo ancora. Divenni padre. Un certo numero di volte.
E, pian piano, capii il senso di molte frasi che ritornavano dal passato, come un riverbero di voce proveniente da qualche parte, che rimbalza nella tua testa e che stimola e fa scaturire altri ricordi, ed altre frasi.
Ora sono - tecnicamente - adulto. Verso i cinquanta. Ho la fortuna di avere voi, figli miei. Una bella famiglia. Ho la fortuna di praticare una disciplina dura. Ho la fortuna di praticare sport, di praticare la riproduzione musicale non meccanica, di avere alti e bassi e di essere nato e cresciuto in un luogo dove queste fortune sono possibili.
E, soprattutto, ho la fortuna di poterlo incontrare, e di potergli dire le uniche tre parole che - forse -  possono scalfire una montagna di granito come lui, ricordandogli che qualsiasi poesia, racconto, giocattolo, cadeau, non potranno mai descrivere quel che si prova per il proprio papà.


Tuesday, March 8, 2011

Sequenza numero tre.

Primo: non prenderle.

Quando studi la disciplina Shinseikai ti accorgi di molte cose che, normalmente, tendono ad essere date per scontate, e quindi sottovalutate: una buona (ottima) guardia può aumentare le tue possibilità di rimanere in piedi, la capacità di nascondere le tue difficoltà (un respiro rumoroso indica stanchezza tanto quanto le vituperate mani sui fianchi), affrontare il tuo avversario (o il tuo sparring partner) con strategia e tattica giusta, e molto altro ancora.
L'aver osservato un frammento di lezione privata, erogata dal Sensei, mi ha dato la possibilità di rubare con gli occhi alcune tecniche di difesa efficaci ed il loro posizionamento in priorità. Uno sport a contatto pieno prevede, appunto, il contatto, ed è (credo) inevitabile ricevere tecniche che l'avversario è ben felice di propinare tanto quanto te.
L'esempio che si è impresso nella mia mente riguardava la difesa da una delle tecniche base, un  mawashi geri gedan (calcio circolare basso). Mi permetto di riportare le priorità (in ordine inverso, dalla più bassa alla più alta) elencate dal Sensei:

Priorità Due: effettuare uno squat (piegamento verso il basso) della gamba in difesa per ammortizzare e diminuire - se possibile - l'impatto proveniente dal sune (tibia, verso il ginocchio) sull'area interessata. Ma ne esiste una migliore.

Priorità Uno: effettuare un sune uke, richiamando appropriatamente la gamba in difesa al corpo con una direzione di 45° rispetto alla tecnica di attacco, che allo stesso tempo ammortizza e devia il colpo rendendolo inefficace. Ma ne esiste una migliore.

Priorità Zero: effettuare un sabaki, scattando all'indietro con una spinta proveniente dalla gamba avanzata (mae), mandando a vuoto l'avversario e lasciandoci pronti per una possibile e rapida tecnica di attacco.

E' bello scoprire - ogni volta - che lo studio di un'arte marziale basata sulla disciplina del corpo e della mente, basata sulla formazione di un gruppo coeso e pronto ad aiutare i membri che ne hanno bisogno e soprattutto basata sullo spirito giusto cerca di evitare - sempre - il contatto inutile. Forse è proprio vero. Il sabaki è movimento, controllo, e preparazione della prossima mossa, qualcosa che può esserci utile nella vita di tutti i giorni.

Friday, March 4, 2011

Sequenza numero due.

Superato un ostacolo, ce n'è subito un altro.
Quando pensi di essere entrato in sintonia con l'ambiente in cui ti viene richiesto di essere parte attiva - da protagonista, da gregario o da semplice spettatore -  succede sempre qualcosa che ti riporta ad una condizione non ideale. Qualche esempio:

Devi cantare con il tuo gruppo, fino alla sera prima eri in forma e ora scopri di avere il mal di gola.
Devi sostenere un allenamento importante,  e ti svegli la mattina con la schiena bloccata o non propriamente funzionante.
Devi parlare ad un audience di un tema specifico, preparato da giorni, e l'argomento è cambiato e più ostico.

L'uomo fortunato, quindi, non è solo chi riesce a ricordare i propri sogni, ma chi riesce - tra le altre cose - a gestire il cambiamento. Per dirla con qualcuno: constant change is here to stay. Un appunto per me: non perdere tempo a lamentarti. Se vuoi davvero cambiare le cose, devi essere il primo ad accettare i cambiamenti.
Il cambiamento è vita.

Wednesday, March 2, 2011

Sequenza numero uno.

Fortunato l'uomo che riesce sempre a ricordare i propri sogni.
Da grande diventerà scrittore, poeta, verseggiatore incauto, stornellista o sceneggiatore dei dialoghi del Grande Fratello n. 109, sottopagato e - ovviamente - in nero.
Per tutti gli altri comuni mortali, ricordare un sogno è un avvenimento che condiziona il risveglio e la mattina, e che sbiadisce poi durante il corso del giorno.
Ancora ricordo il sogno di stanotte.

Siamo nel Dojo.
Fine allenamento.
Circoletto del gruppo dei Megatteri (persone di una certa stazza/altezza/peso/età, composto da me, Ivano, Dario, Luca, Lorenzo) intorno al Sensei. Si discute di Karate (ma guarda un po'), dell'imminente Kyu, degli acciacchi, degli agonisti, e di altre cose.
"Quando si terrà l'esame?" chiede qualcuno, credo Dario.
"Aprile, e forse anche dopo." risponde il Sensei.
"E il programma?" chiedo io.
"Dovresti già averlo." mi assicura il terzo Dan.
Silenzio.
Nessuno osa fare la domanda successiva.
Il Sensei nasconde un sorrisetto.
Luca prende coraggio. "E quando saremo pronti?"
Il Sensei esegue una micropausa ad arte, e ribatte: "Questo siete voi a saperlo".
Poi fa una pausa un po' più lunga, un sabaki con gli occhi, mi guarda, e dice: "Tu, sei pronto?"
...

E il sogno mi va a finire proprio sul più bello.
Ho provato a chiudere gli occhi di nuovo, ma il corpo mi ricorda che non sono dentro Inception e che il sogno è volato via.
Strano. Cerchiamo di delegare ai sogni quello che dovremmo già sapere nel diurno.
Sei pronto? Sei innamorato? Hai coraggio?
Solo tu puoi saperlo.