Saturday, December 31, 2011

Part of the Machine

Scrivo queste righe mentre indosso la mia maglia 3113 (strano numero, vero?) per partecipare alla 10K nel centro di Roma, riflettendo sulle considerazioni post-Mokuso dello scorso giovedì. La maggior parte delle volte, nella vita sociale (e, per i fortunati, nella vita professionale), ti senti come un ingranaggio - piccolo - con una singola funzione all'interno di una macchina più grande e complessa a tal punto di non riuscire a comprenderne l'utilizzo.
Ci sono delle volte, invece, in cui questo non avviene. Quando sei talmente fortunato da trovare e partecipare ad un gruppo che è molto di più della somma dei suoi partecipanti (cfr. Durkheim) non ti senti parte di una macchina. Sei un organismo che fa parte del gruppo, ma lo rappresenta.
Non credo sia una connotazione misticheggiante da supermercato della propaganda: è semplicemente realizzare che mi piacerebbe condividere questa fortuna con il tutto il mondo. Far parte di un gruppo coeso rende tutto più facile.
E oggi io correrò con il gruppo Shinseikai.
I miei obiettivi per il 2012?
Vivere, e far felice i miei affetti :)


Friday, December 23, 2011

Regression Testing

Si avvicina la fine dell'anno, e il genere umano ha deciso, nel corso dei secoli, che questo debba necessariamente significare qualcosa di speciale. La vita sembra continuare.

Lo spread si alza e si abbassa con tendenza verso la crescita, gli italiani continuano a lamentarsi più o meno di qualsiasi cosa, i gestori dei negozi continuano a non emettere scontrini, i guidatori di macchine mortali continuano a non rispettare etica e segnaletica stradale, i mangiatori continuano a parlare di cibo e cucina con la bocca piena, e gran parte della popolazione di questo paese che non riesco più a descrivere sembra non risvegliarsi da un torpore mentale, fisico e metafisico inoculato anni addietro da menti lungimiranti su un substrato culturale già pronto per l'anestesia.

Eppure, nello sfacelo dell'educazione civica e nei dimenticati corridoi dell'altrui rispetto mi piace scoprire - raramente, eppur succede - alcune gemme che mi fanno sperare in una minoranza attiva ancora viva e vegeta.

  • Un signore che ringrazia e sorride al mio goffo e tempestivo tentativo di forzare le porte dell'ascensore per permettergli di entrare.
  • Uno sguardo empatico da parte di un impiegato del supermercato subito dopo che una famiglia di primati mi ha letteralmente rullocompresso (e credo di essere pienamente visibile) con il carrello della spesa.
  • Il sorriso di un lavavetri che guarda il bipede torvo e annichilito rinchiuso nella sua quattroruote portaregali.
E poi, i miei affetti, le cose per cui vale la pena vivere. Lo sguardo dei miei figli piccoli (si fa per dire) dopo giorni di assenza. I loro occhi quando danzano al ritmo dei Nirvana orchestrati con violini parsimoniosi.

I miei amici, pochi ma buoni, poche parole e molte emozioni. Non c'è bisogno di descriverli. Anzi, si. Meravigliosi.

E, soprattutto, il mio santuario. Il mio rifugio. Il luogo dove scordo quello che ho appreso per ricordare quello che ho dimenticato. Il luogo dove la disciplina e la legge sono veramente uguali per tutti. Dove chi arriva in ritardo fa flessioni. E se il Maestro arriva in ritardo, fa flessioni doppie. Il luogo dove si entra tesi e si esce più pieni, più vivi, e forse migliori. Il luogo dove si studia difesa personale e anche difesa mentale personale.
Il Dojo.

Saturday, October 8, 2011

Kumite!

I pensieri prima del Kumite - l'arte dello sparring, del gareggiare con un avversario secondo regole e codici ben precisi - sono veloci e si intrecciano come nodi. Alle volte è anche difficile districarli, a causa della tensione.

Pensi alla strategia. Capire chi hai davanti in pochi secondi, ed adattare il tuo stile, il tuo carattere, la tua verve e le tue tecniche in base alle caratteristiche dell'altro. Ricordalo, ti servirà.

E poi pensi all'alfabeto: le lettere (i Kihon), le combinazioni che corrispondono a sillabe (i Renraku), e la capacità di pronunciare delle frasi (la strategia - di nuovo - che fa da collante tra te e la voglia di superarti). Ricordalo, ti servirà.

E poi pensi all'imprevisto: non farti mai, mai, MAI prendere di sorpresa. La sorpresa appiattisce per un solo istante la tua resistenza, ed in quell'istante può succedere di tutto. La sorpresa è inevitabile in un Kumite, e quindi tienila sempre presente. Ricordalo, ti servirà.

E poi pensi al riscaldamento: né troppo né poco (sarò riuscito a riscaldarmi correttamente?), lasciando andare il corpo per risvegliarlo e renderlo consapevolmente pronto al Kumite. Ricordalo, ti servirà.

...

Il rito del Kumite inizia, marziale, rigoroso eppure coinvolgente: l'atmosfera del Dojo si polarizza verso il ring, il cuore inizia a battere un po' di più, il Sensei ripete le regole per i tre livelli (prima, seconda, terza serie), ed inizia a chiamare. Le conversazioni tra gli studenti si riducono a pochi e rispettosi bisbiglii che ruotano attorno ad un clima di incoraggiamento (ganbatte kudasai - fai del tuo meglio, coraggio!). I nomi degli studenti vengono chiamati in una sequenza veloce, il pochissimo tempo tra uno sparring e l'altro ci ricorda che stiamo studiando - in ogni caso - una disciplina marziale.

...

"Gabriele".
Sono chiamato sul ring. Controllo velocemente le protezioni e salgo su una scaletta che sembra progettata da M.C. Escher, tendo le corde, entro e mi presento con il saluto ed un "OSU!". L'arbitro (il Sensei) ordina i saluti e le posizioni in giapponese, correggendo anche errori di postura. In quel preciso istante il cuore inizia a battere forte. Forse è Lui che si riaffaccia, ma stavolta lo so. Lo so. Sorrido, e reprimendo il sorriso ordino al cuore di battere un po' meno, ringraziandolo comunque dell'ottimo lavoro effettuato finora e pregandolo di continuare a farlo per almeno qualche decennio. Il cuore sbuffa, alza gli occhi al cielo (che rompiscatole, questo) ma alla fine esegue il comando, rallenta quel tanto che basta ad evitare fastidiosi colpi di tamburo vicino le tempie,  e mi lascia il corpo piacevolmente teso. E, al verbo di inizio pronunciato dal SenseiArbitro, il Kumite ha inizio.

...

Cerco di essere mobile, di non rimanere neanche un femtosecondo nella stessa posizione, e voglio ruotare, in continuazione. Ci scambiamo tecniche di pugno, di calcio, e qualche combinazione. Il tempo scorre a due dimensioni (strano, per la quarta dimensione, no?). In un senso, tutto è rallentato. Nell'altro, tutto è troppo veloce. E i due sensi non si incontrano mai. Uso qualche tecnica gedan, preceduta da combinazioni Oi-tsuki e Gyaku-tsuki. Accenno ad un Sanbon-tsuki.  Prendo qualche gedan anch'io, e cerco di assorbire le tecniche di pugno. Penso ad un sabaki, ma non riesco neanche ad accennarlo, ed il pensiero mi costa un'altra combinazione incassata. Continuo a girare, è meglio non stare fermi, saltellando e ruotando (almeno così percepisco) attorno al fulcro costituito dal compagno di sparring. Cerco di spingere il compagno di sparring verso l'angolo continuando con le tecniche di pugno. Insisto con Oi-tsuki e Gyaku-tsuki. Il match viene fermato. Provo qualche mae-geri, forse uno di troppo, ed il mio temporaneo avversario intuisce l'inutile ripetizione afferandomi la gamba e cercando di farmi cadere per finalizzare e guadagnare qualche decimo di punto. E in effetti cado ma non completamente. Non riesco a capire quanti secondi sono passati dall'inizio, ma intuisco che la mia semicaduta non ha inficiato il punteggio. Continuiamo qualche scambio ravvicinato, fino al comando del SenseiArbitro che decreta la fine del match.

...

Il Sensei pronuncia tre o quattro comandi in equivalente Katakana (カタカナ) e, guardando gli arbitri ad ogni lato del ring, da il suo responso. Non ho capito se ho vinto. Ma sorrido. Ho affrontato un kumite - e, soprattutto, ho affrontato Lui. E mi sento vivo. Sono vivo. Mi viene da urlare a tutto il mondo: SONO VIVO!

Almeno fino al prossimo Kumite.



Wednesday, September 14, 2011

Al Dojo.

  • Al Dojo vige la democrazia. Non conta un piffero nessuno. Lavorare e basta.
  • Al Dojo c'è un sano rispetto per chi ha studiato più di te.
  • Al Dojo, d'estate, è inutile asciugarsi dopo la doccia. Recentemente, negli spogliatoi, si è superato il limite teorico dell'umidità 100%, registrato attraverso Nomogramma di Herloffson.
  • Al Dojo, d'inverno, qualcuno si è lamentato (incautamente, ad alta voce) del freddo pavimento. Dopo le prescritte 80 flessioni seiken il pavimento ha cambiato improvvisamente le caratteristiche geotermiche.
  • Al Dojo non esistono perversioni, a parte le ricorrenti mani sui fianchi con annessa punizione e le sdraiate sui tappetini prima del comando. E, si, con annessa punizione.
  • Al Dojo, alle volte, si hanno le allucinazioni da mancanza di ossigeno. Ieri (era ieri? non ricordo bene...) mi è parso di vedere Giorgio Petrosyan, vestito con un gessato grigio, e valigetta rigida di pelle a corredo, che distribuiva sales brochures su centri benessere in Dalmazia.
  • Al Dojo ci si va nei giorni pari. E lo si sogna nei giorni dispari. L'altra notte, verso le 5 antimeridiane, mia moglie mi ha svegliato dicendo: "Facevi un rumore strano". Era un Kiai.
  • Al Dojo si sviluppa un orologio interno basato su martedì-giovedì-sabato. Nel malaugurato caso di salto lezione in uno di questi giorni, l'orologio impazzisce e vieni automaticamente resettato al 31 Dicembre del 1981.
  • Al Dojo vedi amici, colleghi, compagni di studio - ma in un'altra prospettiva. La fatica di inseguire un obiettivo in costante movimento genera unione, complicità, rispetto. Tranne Lorenzo, che sposta l'attenzione del Sensei dove non dovrebbe :).
  • Al Dojo si rispetta la natura e le stagioni. Per ogni stagione c'è un test. Il test del panettone, il test dell'uovo pasquale, il test delle fragole e quello delle castagne. Se non sei in forma, non passi il test. Se non passi il test, ti alleni fino a che non sei in forma. E così via. La vita è una ruota, e se non fai il test con il Sensei, fai il test con Tullio Senpai. E se non fai il test con Tullio Senpai, ti capita Mattia Senpai. Meglio rimanere in forma.
  • Al Dojo andrò domani, e, mutatis mutandis, stavolta non scorderò l'intimo di ricambio.
  •  
     

Thursday, September 8, 2011

Impara a nascondere.

Puoi incontrarlo, magari tutti i giorni, durante il regolare svolgimento della tua attività, ma anche nei momenti di ferie o fancazzismo non pianificato. Al lavoro (Zeus, quanti se ne incontrano!). Nel fortunato tempo del tuo hobby preferito (forse ancor di più...). Quando te lo aspetti e - ovviamente - quando meno te lo aspetti (non c'è speranza, sai che potresti incontrarlo).

Ti trovi lì - esattamente dove sei, pacioso, camminando insieme al tuo bene - oppure da solo, quando devi e puoi riflettere su quello che accade. Oppure ti trovi là, quando hai appena sfiorato il triangolino del tuo lettore mp3 preferito per concederti una sana schitarrata urticante a volumi vietati dalla convenzione di Ginevra. O proprio laggiù, dove credevi di averla fatta franca.

Ti viene incontro baldanzoso, come il lupo di Leonida pregusta la preda, affilando i canini con la lingua in attesa che la caccia sia compiuta. I tuoi occhi vanno prima a sinistra, e poi velocemente a destra, non rilevando nascondiglio alcuno, né tattico anfratto, o neanche un dispositivo di occultamento scordato da un Predator durante l'ultima scampagnata estiva. Non puoi evitarlo, e cerchi una posizione laterale di uscita, anche se l'eucariota ha intuito il tuo movimento e squilla a 117 logaritmici decibel il suo saluto, di fronte al quale non hai possibilità di uscita.

E' proprio lui: il Fanfarone Importunus.
Classe: Mammalia
Ordine: Primates
Genere: Homo (ahinoi!).

Non fai in tempo ad ultimare la conviviale frase di saluto che il bipede attacca il gruppo elettrogeno collegato alla strumentazione vocale per inondarti di informazioni, infiorettate, sulla sua vita, sui suoi successi ed achievements-awards-trophies nazionali ed internazionali, con una rapida carrellata sulle raggiunte e consolidate meraviglie professionali (8 minuti e mezzo, con dettagli artistici sul percorso formativo e carriera), una dissolvenza incrociata sui successi musicali (circa 4 minuti, cinque dischi che variano dalla Sinfonica al Post-Punk-Crossover-Hardcore in compagnia di personaggi statuari che vanno da Von Karajan - da lui chiamato confidenzialmente Herbie - fino al figlio sconosciuto di Iggy  Pop), un'inquadratura con un dolly su considerazioni filosofiche proprie di una mente superiore amplificata dal prisma della grandezza sul rapporto tra successo e (suo) desiderio giovanile (interminabile, 13 minuti filati), e una botta di steadycam su attività collaterali come presenze a mostre e convegni sulla migrazione del Dodo, prefazione di 9 libri di case editrici mainstream ed indipendenti e  coda sui successi fuori dallo Stivale (non meno di 15 minuti percepiti).

Qualsiasi cosa tu abbia mai fatto nella tua misera, sporca, inutile vita, l'Importunus ha avuto la capacità di farla:
a) prima
b) meglio
c) documentandola appropriatamente con velleità artistiche a te sconosciute.

Dopo questa sbrodolata, durata più di 40 minuti (al ritmo di una imprecazione al minuto, mi sono guadagnato il posto da anima prava VIP sulla barchetta di Caronte), l'Importunus si ferma. Incredibile. Mi fissa con acquosi occhi appena tinti di fatica (il fanfaronismo stanca) e mi chiede:

"E tu? Fai l'informatico, no?".
Pausa.
"Si."

La pausa tra domanda e risposta mi lascia una sola parola in testa: il Karate. La disciplina. Imparare a nascondere la fatica. Imparare a nascondere il dolore, se possibile. Imparare a nascondere il proprio respiro: un respiro affannoso è chiaro indice di stanchezza, e quindi un'arma in più in mano all'avversario. Imparare a nascondere una postura non corretta (mani sui fianchi, testa che ondeggia verso il basso). Imparare a nascondere le parole che descrivono la propria esperienza per metterle in pratica durante un momento critico. Imparare a nascondere il proprio Ego. Carattere ed Ego sono due entità - talvolta - opposte.

L'Importunus si accinge al commiato (in effetti avrà molto da fare) e durante le fasi finali della sua autoreferenzialità mi consiglia di leggere il suo Blog.
Sogghigno di nascosto. Mi ha dato un buon suggerimento: non andrò a leggere il suo Blog ma scriverò un post sul mio mediocre taccuino digitale. Non sarà un gran che, ma sarà di aiuto per nascondermi fino alla lezione di stasera.






Thursday, September 1, 2011

Riflessi.

Inizia un nuovo Anno Accademico. Shinseikai. Che non è proprio come frequentare l'università per conseguire un titolo di studio. Probabilmente è proprio il contrario, frequentiamo il Dojo per conseguire uno studio del titolo, "Shinseikai" - una disciplina interiore ed un'arte marziale.

Sono passati due anni da quando credevo di non arrivare alla fine della prima lezione, e la sensazione non è cambiata granchè. Permane un giusto retrogusto reverenziale nei confronti della materia oggetto di studio, un rispetto senza pari dei tuoi compagni di avventure, di scoperte e di botte, la trasformazione fluida di Filippo da collega ad amico a Sensei, l'odore di fatica del Dojo, le zanzare-Kamikaze importate direttamente da Kyoto,  il bisbiglio pre-allenamento, l'uscita dal Dojo con le proprie gambe (è sempre una sorpresa), e mille particolari ancora da descrivere.

C'è qualcosa di diverso, però. Come una specie di riflesso, non sai da dove arriva ma lo vedi.
Ho speso innumerevoli cicli macchina nel pensare cosa potesse essere.

Forse l'ambiente, il gruppo, il maestro, il tipo di disciplina studiata, l'approccio metodologico, l'inaccessibilità di alcune tecniche, l'obiettivo che si sposta costantemente ed inesorabilmente avanti?
Probabilmente si. Tutte queste cose cooperano (e alle volte concorrono) a quel riflesso di cambiamento che rende questo studio sempre differente. Ma non corrisponde precisamente alla sensazione che cerco di delineare. Manca ancora qualcosa.

Forse è una diversa percezione di te stesso rispetto allo studio?
Ci siamo quasi. Lo studio Shinseikai non include sconti per nessuno. Duro per tutti, ognuno di noi è certamente in grado di valutare variazioni anche minime della nostra percezione, traendone vantaggio.

Forse sei cambiato tu?
Ci siamo. Non è detto che ciò sia avvenuto per il meglio, ma certamente un cambiamento forte c'è stato da dentro. Ripensando ai preliminari della prima giornata Shinseikai - ventiquattro mesi fa -  e avendo a disposizione una macchina dello psicotempo, in grado di dare un'occhiata fugace al riflesso di me stesso, vedrei:

- Un tizio che si crede mediamente in forma.
- Un tizio che si crede mediamente un 'subject matter expert', un esperto su materie specifiche.
- Un tizio che si crede mediamente un comunicatore.

Spengo l'immaginaria e magica macchina, e svanisce il riflesso. Guardo quel che ne rimane, con le considerazioni sul cambiamento ed i suoi effetti, e penso a quanto sono fuori forma, al fatto che non basta una vita per apprendere, e che in realtà non comunico più come una volta. Sorrido. Sono un uomo fortunato, quello che per molti è tornare indietro per me è continuare ad andare avanti.


Monday, June 13, 2011

Shinseikai Stars: Tulliobot

Da quando frequento il Dojo ho visto tante cose. Belle. Sorrisi, lacrime di commozione, abbracci, botte (sempre in amicizia), momenti di ilarità e momenti quasi drammatici. Un campionario sinusoidale di vita dal bianco al nero, passando per il giallo, il blu, il verde ed il marrone.
E, come ogni volta, non vedo l'ora di sentire il Sensei pronunziare la rituale frase "Entrate, brutti!".
In effetti, vedendoci, non siamo un gran che. L'intenzione del Maestro non è di offendere ma - bensì - di stimolare la crescita interiore, e migliorarsi.
Il Sensei squadra la platea, pensa (in effetti lo siete, ma non lo ripeterò) e si avvicina a Tulliobot, bisbigliando qualche comando in fenicio, probabilmente la struttura della fatica della prossima mezz'ora.
Come?
Non sapete cosa sia un Tulliobot?
Ve lo spiego io, se avete due minuti e mezzo.
  • Tulliobot è un androide piccolo e micidiale, corporatura media, capello nero, camicia bicolore (a volte), che ha solo un pulsante: ON. L'inventore si è dimenticato del pulsante di spegnimento. A volte il Maestro non ha altra risorsa per spegnerlo se non quella di togliere la spina, soprattutto nella fase di riscaldamento dinamico.
  • Tulliobot ha due karategi; uno a maniche lunghe e uno a maniche corte, ma non vi fate ingannare. Mena in egual misura con tutti e due.
  • Tulliobot - essendo un organismo quasiumano - non suda. Alle volte è possibile vedere qualche microscopica macchiolina intorno a lui, ma non è sudore. E' olio di macchina multigrade.
  • I Tulliobot hanno capacità di analgesica autoriparazione. Quello che abbiamo noi, recentemente, ha avuto un incidente sul ricettore olfattivo, ma la settimana dopo era già in allenamento.
  • Il nostro Tulliobot è una cintura nera. Significa che quando c'è il Maestro ci spinge al 110%. Quando non c'è, va direttamente al 120%.
  • I Tulliobot non hanno il minimo senso del rancore. Quando ritornerò al Dojo, domani (deità permettendo), avrà analizzato questo scritto e non mi inseguirà al fine di abbreviarmi la vita (vero Senpai?).
Lo scorso anno accademico mi si avvicina un losco figuro - giacca a quadri, cravatta, borsa in pelle - che vuole parlare con il Sensei. Il Sensei è fuori per lavoro, rispondo. Con fare furtivo mi bisbiglia di uno scambio: il nostro Tulliobot contro due nuovissimi robot inorganici Panasonic, completi di software Karate 1.1 e Preparazione Atletica 3.2 e garanzia di dieci anni on-site, iniziando a recitarmi un pistolotto di prevendita sul Time-to-Value, sul Total Cost of Ownership e sul Vendor Lock-in. 
Lo guardo sdegnato. Di Tulliobot così non ne producono più. Me lo tengo, ci mancherebbe proprio. 


Wednesday, June 1, 2011

Mirco

Il giovane e segaligno poeta staccò la penna, intrisa d’inchiostro e sudore, da quello che una volta era un virgineo foglio di carta, elegante e spessa, quasi avesse un nerbo e carattere preciso invece di comparir mero supporto al pensiero altrui. Il suo respiro era affannato, e sussultando cercava di sugger l’aria e riposar membra che però non avevano corso, né faticato sui campi riarsi dall’estate.
Non sono un poeta, pensò. Sono uomo di scienza.
La stanchezza del ragazzo, però, era reale, tanta la passione nel far danzare i propri pensieri e celebrarli sul palco dell’arte di raccontar cose che vengono dal proprio dentro e farle capire a chi risiede stabilmente nel proprio fuori.

“… Ma sedendo e mirando - interminato
Spazio di là da quella, e sovrumani
Spazi …”
 
Una sinfonia di parole, sequenze che si intrecciano, si guardano e si rifiutano, si corteggiano e si amano, si fuggono e si cercano, e si illuminano l’une con le altre. Le parole a formare una scala a pioli dove ogni passo ci affatica ma ci rende più vicini alla meta, al tutto.

Il ricercatore e presunto cantore non era soddisfatto, però. Un emistichio fuori posto, subito cancellato. Una parola, come una nota in un dorico assolo che poteva essere omessa, o forse legata. “sovrumani Spazi”, ripensò il solitario artista. Ecco il passo di danza sbagliato! Le labbra dello scrittore fremettero d’impazienza, quasi ad anticipare l’elegante movimento del pennino che corresse, sulla filigrana, il verso incriminato e continuò lo scritto ed il viaggio interiore in:

 
“… Ma sedendo e mirando, interminato
Spazio di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura.”

“Grazie, o dea dell’arte e dell’amore” pensò, grato delle parole ispirate che continuavano a rimaner vive anche dopo esser state chiuse e sigillate nel foglio di carta a perenne sfida contro la memoria e il tempo. La gratitudine per sé e per la propria musa ispiratrice portò il raccontatore in uno stato di ebbrezza, dove le parole quasi si inanellavano senza sforzo alcuno, e con continua attenzione per non rompere la preziosa ma fragile sequenza:

“Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio.”

Il vorrei-esser-un-cantastorie si concesse un piccolo lusso a cui, in genere, non era avvezzo: la rilettura di quanto scritto fino a quel momento. La composizione era soddisfacente, le parole giuste, giusto il tono. Non si beava mai di quanto era da sé composto, cercava in continuazione il perfettibile, la piccola magagna, l’asperità da limare, il concetto da accorciare, l’emozione da cantare, l’erbaccia in agguato in un cespuglio di lavanda e rose. E non riuscì a trovarlo, dannandosi per la sua emotività e come sempre capendo che ciò rappresentava la spinta a scrivere, la discesa su cui iniziare a correre per far andare veloci le parole tanto quanto i pensieri.

Ma c’era qualcosa.

Non riuscì a capire subito se era un metter o un levare, un troppo o un poco, un vuoto o un pieno. Si accorse troppo tardi di una goccia di sudore che cadde sulla carta, fortunatamente mancando la propria scrittura. L’acqua evaporò rapidamente, attirando l’attenzione del letterato. “L’acqua, madre d’ogni bene.” pensò.
L’acqua, la vita, la sua gioventù, le passeggiate in riva al mare, insieme ai suoi pensieri e la sua voglia di fuggire e salpar per nuove rotte. Il mare.
L’artista-ricercatore riprese la penna e vergò, di getto, il foglio concludendo il proprio lavoro:

“Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.”

E, dopo la poesia, l’infinito silenzio.

Tuesday, May 31, 2011

Melissa.



Non ricordo come tutto è iniziato. Anzi, lo ricordo benissimo.

Incontrai Melissa qualche tempo fa, mentre passeggiavo in una zona centrale della mia città, era caldo ma non troppo, c’era il sole ma non troppo, c’era gente ma non troppa, l’aria mossa ma non troppo. Ricordo una coppia di pensionati che trascinavano le zampe di chi è stanco, lasciando dietro di loro un binario di gelato al cioccolato che si scioglieva, ma non troppo, mentre cercavano di schivare i banconi dei venditori ambulanti e lo sciame di avventrici che rovistavano i capi d’abbigliamento ben ordinati e disposti come una tipica fila italiana davanti ad uno sportello delle Poste.

Non mi chiamò lei direttamente, ma si fece sentire. Era più giovane, ma con lo stesso caratterino. Voi non conoscete Melissa, io si. Il sorriso di Melissa ha il riflesso di mille iceberg scintillanti e non contaminati dal buco dell’ozono, la sua camminata è un passo di danza, il suo scatto è quello del Borzov dei tempi andati prima che iniziasse a doparsi, le sue battute taglienti come trappole per lupi marsicani. Una volta le dissi: “Non andare al limite, perchè ti farai male”. Lei mi rispose: “Pensa per te, ‘che non ti reggi in piedi, stupido bipede monodotato”. Dal tono medieval-Kantiano capii subito di avere a che fare con un cipiglio ribelle gentilmente depositato su un labirinto di voglia di vivere, frammisto a sprazzi di genio e di gentil depressione. E m’interrogai per giorni sul monodotato. Ma sto andando fuori tema.

Dicevo, si fece sentire lei. Fui sorpreso dapprima, ma dopo 16 minuti non lo ero più. Lei era li, mi invitava da qualche parte, ma dopo pochi istanti voleva fare qualcos’altro. E io perdevo la pazienza, o almeno si capiva dai miei intermittenti sbuffi nasali abarth. Voleva autonomia ma essere seguita, voleva l’acqua ma anche il vino, voleva tutto e niente, profumi e balocchi, viaggi e dormite, voleva luce solare e tenebroso buio.

Poi decise che non poteva continuare a vivere da sola, anche se le Melisse sono primati molto selettivi e scelgono con cura le proprie compagnie. Prese una giraffa (all’epoca più piccola, ora il suo collo la sovrasta di una Melissa e mezza) e la spupazzò, la allevò con molta tenerezza e dedizione, e con la giraffina (in divenire un Giraffone) si mise alla ricerca della propria identità.  Le chiesi più di una volta cosa stesse cercando, ed ogni volta, in forma anglobarocca, mi rispose: “None of your business, traballante tondino pieno di boria e foriero di consigli non richiesti”. Dal tono sicumerico-introspettivo, capii che il caratterino non le era cambiato affatto, e che il labirinto di voglia di vivere era diventata una città tentacolare, variegata di fantasie veloci ed accelerazioni emotive oltre la velocità del suono. Ma sto ancora andando fuori tema.

Negli anni che seguirono, adottò altri due compagni di strada, che la seguivano quasi sempre e con poca manutenzione a carico: qualche pasto caldo e un giaciglio. Il primo era un extraterrestre proveniente da Arcturus, alto la metà di lei, con denti auguzzi, peluria di verso variabile e cipiglio analogo proporzionale all’altezza (interminabili discussioni, ma divertimento garantito). Il secondo company pet era una bambola bionda automatica ancora più bassa dell’ufetto dentiaguzzo e che essenzialmente aveva due modalità operative corrispondenti a due bottoni pigiabili sulla schiena: Pipa e Lagna. La modalità Pipa attivava l’automa spostando il dito pollice destro all’interno del cavo orale e stimolando l’atto del succhiare (facendo la mossa della Pipa, appunto). Tale modalità poteva solo essere interrotta dall’attivazione della modalità Lagna, dove la bambola scoppiava in un pianto dirotto e stavolta sproporzionato rispetto alle sue effettive dimensioni.

Alle volte potevi trovare Melissa, il Giraffone, l’alieno e la bambola passeggiare per le vie del centro, e Melissa non era certo tenera con tutti e tre. Ma era paziente. Il Giraffone voleva l’erba, e poi non la mangiava, e Melissa si industriava per inventare situazioni che stimolassero i pochi succhi gastrici del quadrupede. L’alieno (chissà in base a quali condizioni) lanciava strali verbali incomprensibili, o richieste formulate al contrario, e Melissa cercava di decodificarle, e di soddisfarle se possibile. La bambola ogni tanto era difettosa, si bloccava sulla modalità Lagna e ogni volta Melissa le dava una saracca sulla schiena per riportarla alla modalità Pipa.
Quando succedevano tutte e tre le cose insieme Melissa andava in conflitto di interessi (soprattutto il suo) e iniziava a ballare il tango elettrico argentino suonato a volume 16 su 10, che quindi sembrava una sinfonia di undici chitarristi metallari rinchiusi a vita in una prigione segreta e poi fatti uscire per 15 di minuti di assoluto relax.

Poi Melissa cambiò piano dimensionale, e non ebbe più la compagnia al seguito. Un giorno si chiuse nel suo appartamento, studiò testi di filosofia e statistica, di sociologia delle masse ed epistemologia delle messe, studiò l’intera opera di Alberoni, ne staccò delicatamente ogni pagina e la riciclò in sala da bagno, lesse la Bibbia, il Corano, il Necronomicon, i Racconti Romani di Moravia e le allegre poesie di Leopardi. E i mesi passarono. E Melissa studiava. Studiava l’impero Romano e l’impero Berlusconiano, il Medioevo e il Nuovoevo, il Paleolitico e le nuove dittature. E mesi su mesi passarono, lenti come un film di Sergio Leone visto sotto acido. E Melissa continuò a studiare, come per estinguere un’inarrestabile sete di sapere. Studiò economia e finanza, italiano e inglese, gastronomia e scienza dei razzi, etica e cibernetica. Fino a che, in una bella giornata di primavera, usci sul balcone, respirò a fondo, e disse sottovoce: “Mi sono rotta i coglioni”. Dall’espressione artistico-ermeneutica, capii che era in atto un altro cambiamento. E che la città tentacolare che rappresentava la sua voglia di vivere era diventata un universo, dove i corpi celesti dell’intuito, della spontaneità e dell’esperienza si attraggono e respingono con leggi Maggiori ancora non conosciute. Ma oramai sono sicuramente fuori tema.

Quando partì per il suo viaggio mi lasciò un biglietto, che ancora conservo tra le mie cose più care. Da allora non ho più avuto il piacere di guardarla, di vederla muoversi come un principe tra i principi, di notarla appena mentre fluttuava da una situazione all’altra. Voi non la conoscete Melissa, io si. Come acqua di fonte. Può gelarti come acqua di fonte d’estate, e ristorarti come acqua di fonte d’inverno. La sua lealtà verso le scelte è stata d’esempio anche a persone che hanno il doppio della sua età, come una memoria che riacquista colore al variare dell’intensità emotiva. Che ti riempie, ti pervade, e dentro diventa viva come una bestia senza nome fatta di spine ed anche di velluto. Ma oramai il tema è quasi finito.

Ancora oggi, alle volte, mi pare di intravederla, tra la folla. La seguo, ed una volta raggiunta, scopro che invece di Melissa c’è un’altra persona con occhi di bovina espressione e voce di capresco ciarlare. E anche se la sua assenza mi colpisce, le mie mani sfiorano, ancora, lo scribacchiato fogliettino-reliquia ormai consunto e ridotto ad un velo. Non ricordo quel che c’è scritto. Anzi, lo ricordo benissimo:

           
            Il mondo è troppo piccolo per me.   

Sunday, May 1, 2011

Backspacer.

Tante volte ho pensato alla sequenza numero sette. Ed in tante guise, una differente dall'altra. Ed ognuna non descrive abbastanza la centrifuga che sembra avere preso il posto del cuore. Le passo in rassegna mentalmente, come carte da gioco: sembrano tutte prese da mazzi di carte differenti, sembrano tutte mie ma nessuna carta veramente mi appartiene. L'unico elemento veramente attivo in questi giorni è stato il tasto Backspace. Più inizio a scrivere e più cancello. 

Il fatidico giorno levai le membra dal mio giaciglio, contemplando, nella penombra - solo per pochi istanti - la forma del cuscino che lentamente ritornava alla quiescenza, pensando: oggi è il giorno dell'esame Shinseikai. Sembrò tutto normale, e tutto diverso. La casa silente, il coacervo di caciaroni fuori, la voglia di essere già lì, karategi indossato, pronto per il riscaldamento, e la voglia di aspettare ancora un momento propizio per la prova d'esame, ben conscio che aspettare - alle volte - non è consentito.
Cancello. Non sono io.

Lo studente guarda fra le dieci dita
la bianca cintura che vi tiene stretta;
e indugia - tanto è candida e perfetta -
ad indossarla come preferita.
Ma dato il giro primo ecco s'affretta:
e quel che stringe par cosa scipita
per l'occhio intento all'esame che l'aspetta...

Cancello. Troppo tronfia. La poesia, nel 2011, interessa a pochi.

Questo non è un punto di arrivo, ma solo un punto di partenza.
Ogni lezione, in realtà, è una prova d'esame.
La cintura gialla non ti alza di un centimetro.
Cancello. Il mondo è già pieno di bellissimi aforismi.

Ho già cancellato, in sequenza:
- Un acrostico SHINSEIKAI fatto in rima inclusiva.
- Un breve racconto ambientato negli anni '70. Ometto la trama, potrei riusarla.
- Una lettera al Sensei.
- L'esame visto dagli occhi dei miei figli, utilizzando il loro gergo.
- Un montaggio video fatto con un brano che richiama il titolo di questo post.
- La combinazione di tutto quello scritto sopra in un post ciclopico.


Rimangono alcune righe scribacchiate, un sogno, una cintura gialla - nuova di pacca - ed una cintura bianca, che porto sempre in borsa. 
La cintura bianca è uno stato mentale, un luogo ed uno stimolo. 
E' quello che sento di essere, è da dove sono partito e dove potrei tornare se manca lo spirito giusto, e lo stimolo a crescere ed evitare pericolosi autocompiacimenti.

Friday, April 15, 2011

Sequenza numero sei.

Accetta gli errori.

Non solo i tuoi, ma anche quelli degli altri. Possono essere un momento di crescita.

Monday, April 11, 2011

Sequenza numero cinque.

Lui.

E' imprevedibile, Lui
Lo nomino al maschile, non sono sicuro del suo sesso, non credo ne abbia uno. E non credo abbia importanza. Facile dire che non ricordo esattamente quando mi sono accorto, per la prima volta, di Lui.
Credo sia stato durante i primi anni di scuola, le mie elementari in bianco-e-nero. 
Papone con la cravatta e una camicia grande quando un lenzuolo King Size, mamma con i denti in fuori, sorella-bambola a fianco, assoluta mancanza di aggeggi elettronici in casa, a parte una televisione ritardata (partiva prima il sonoro e poi - dopo minuti - le immagini) e un giradischi con chassis in legno, marca GRUNDIG, con il selettore in bachelite per i dischi da 33 - 45 - 78 giri. Quel giradischi mi ha accompagnato dai quarantaquattro gatti a Emerson, Lake & Palmer. Niente male.
Insomma, anni sessanta, verso la fine. 
Eravamo a scuola. Dovevo recitare una poesia. Scelsi il Carducci. Mi piaceva, Giosuè: "Il divino del pian silenzio verde". Sentivo - durante la lettura -  che mi si gonfiavano gli occhi come due spugne intrise nel lavello, e che rigorosamente nascondevo in clandestinità perché - cazzarola - l'uomo vero non piange (o almeno, i miei compagnucci delle elementari così dicevano, e io ci credevo).

Gabriele, vieni alla cattedra.

Ecco, toccava a me. La fila dei banchi sembrava non avesse mai fine, un regolare mosaico rigatosbiaditosempreuguale, da cui sentivo il bisbigliare dei primi chiacchericci maliziosi - l'ha chiamato - tocca a Gabriele - va alla lavagna.  
Mi girai verso la classe, e Lui si manifestò. Forse non per la prima volta, ma per la prima volta ne sentii la presenza certa. Gli occhi dei compagni di classe sembravano divertirlo ed incitarlo a far di meglio. Cosa che fece. Il mio viso diventò una variante interessante del rosso Sangria. 
Lui fece del suo meglio per farmi balbettare e rendere la mia voce insipida, incolore e monotona, ma non mi sconfisse. Andai avanti, e completai il bucolico poema con appena un po' di fiatone, ma (importante) senza la voce rotta.
Quell'evento mi segnò. Almeno un pochino. Capii molte cose, tra cui:
  • Dovevo assolutamente proseguire con la lettura di poesie. La voce non era un gran che, ma sentivo che la poetica mi stimolava a prendere i sette chili di Zingarelli, scorrere le parole che non conoscevo e giocare a becca la parola più buffa.
  • Diventavo rosso. Un effetto collaterale che lui rilasciava a comando, nelle situazioni in cui tale tinteggiatura era più indesiderata. Avrei (più tardi) scelto l'hobby del cantante rock proprio per esorcizzare questo virage, ricreando in ogni concerto la situazione della mia classe delle elementari per sconfiggere Lui e i suoi dannati trucchetti.
  • La cosa più importante: Lui esisteva, e ne avevo avuto la prova. Forse non l'avevo veramente sconfitto, ma il riconoscere la Sua esistenza era il primo passo per evitare le Sue trappole (parafrasando Frank Herbert).
Da quel giorno imparai - ogni volta - a combatterlo, controllarlo, addomesticarlo, a ridurre la sua influenza: ecco perché - nonostante io sia introverso e fondamentalmente riservato - non mi tiro indietro nel parlare in pubblico, nel condurre seminari e presentazioni, nel suonare musica ad alto voltaggio davanti a centinaia di persone. Significa affrontarLo al meglio per poterLo sconfiggere. E quasi sempre ci riesco.

Era qualche tempo che non mi faceva visita. Non mi ero scordato di Lui, ma forse avevo sottovalutato la Sua resilienza. 
E, durante una lezione di Karate Shinseikai, è ritornato.
Credevi fossi scomparso? Ride.
Subito dopo il comando Yoi, nella posizione di pronto per eseguire una tecnica, ho sentito la Sua presenza, e l'ho riconosciuto. E' sempre Lui.

Chi è Lui?
Una specie di morsa al cuore che rende il respiro più sottile, ed i pensieri sfocati. 
Il vapore che si deposita sul vetro della finestra, e rende il paesaggio non distinguibile proprio quando ti viene chiesto di descrivere i dettagli di quello che hai davanti. 
La smemorina del Dojo quando hai bisogno di tutti i tuoi ricordi.
Il sussulto di un errore che rende l'errore ancor più palese.

Sono alla sequenza numero cinque. La sequenza numero sette (il mio primo esame Shinseikai) è vicina, molto vicina, e Lui - forse - potrebbe pregiudicarne l'esito. Ci ho pensato su, e stavolta non cercherò di combatterlo. So che Lui sarà con me per sempre, anche durante l'esame. Tanto vale accoglierLo e proporre una pacifica convivenza. Chissà, magari mi darà una mano. Gli aprirò la porta (ciao, fratello!), gli darò un sincero abbraccio, un sorriso sornione e lo convincerò a mettersi di lato, non davanti.

Friday, April 1, 2011

Shinseikai: The End.

Ci sono delle volte in cui i pensieri riaffiorano, vengono a galla dal profondo, indossano una specie di giubbotto di salvataggio e guadagnano, finalmente, aria e luce.
E proprio stanotte ho capito che non posso continuare.
La disciplina che fino ad oggi ho praticato è dura, richiede sacrificio, dedizione, costanza, rinuncia, passione. Ma anche preparazione atletica, scatto, scioltezza, fiato.
Con gli anni ho maturato qualche qualità soft, tra quelle menzionate per prime. Durante tutti questi mesi ho cercato di migliorare, invece, sulla componente fisica, mettendoci del mio.
Ed i risultati, purtroppo, non sono arrivati.
Ho passato molti giorni considerando le varie opzioni, ho chiesto - ed ottenuto - il privilegio di effettuare qualche lezione privata per recuperare il gap tra me e gli altri studenti della Scuola, ma con risultati limitati e - credo - non sufficienti.
Non mi rimane che sventolare bandiera bianca. Non ha senso, per me, continuare a praticare la disciplina Shinseikai senza poter avere accesso a risultati di qualche tipo, né ha senso continuare questo blog, dove per mesi ho avuto il piacere di annotare sensazioni, storie, sguardi, amicizia e sudore. Questa avventura è stata un pezzo - importante - della mia vita. Ricordate quella battuta da film? "Sono stato chiamato in molti modi, ma mai nostalgico." 
Bisogna guardare avanti, e lo farò, anche se mai dimenticherò cosa vuol dire essere stato uno studente - partendo da meno di zero - di una disciplina come quella Shinseikai.
Ringrazio il Maestro, che tanto mi ha regalato, e a cui purtroppo non sono riuscito a regalare altrettanto. E ringrazio anche voi del vostro tempo. E vi ricordo che oggi è il primo d'Aprile, e che  alle divinità dei bendaggi e delle pomate d'Arnica piacendo, ci si vede Martedì al Dojo.

Wednesday, March 30, 2011

Sequenza numero quattro.

"Unisci i puntini"

Non ricordo se già l'ho scritto, o se è solo un falso ricordo, ma farò finta che sia un argomento nuovo.
Dai, alzi la mano chi non ha mai impugnato, almeno una volta, la "Settimana Enigmistica". L'apoteosi della reazione. Il trionfo del classico. La letteratura colta del - per fortuna brevissimo - fancazzismo estivo.
Lo comprava la mamma, da lei ho imparato il Cruciverba Sillabico, le pagine per Solutori Abili, il rispetto per il Bartezzaghi e suoi congiunti, i Rebus, le Sciarade, le vignette del Tenero Giacomo e la contemplazione della fotografia in bianco e nero - in prima di copertina - di primati famosi più o meno moderni fotografati con un dagherrotipo. 
Imparavo guardando (lei che scriveva), ascoltando (lei che arrivava alla soluzione parlando da sola) e leggendo (le soluzioni già scritte). Simultaneamente, mio padre scrutava con nonchalance e  sguardo da Polifemo un quotidiano evitando di commentare le notizie.
Cosa mi rimaneva da fare, visto che la rivista ludico-estiva era - quasi - tutta risolta?
Le alternative (poche) andavano dal "Che cosa apparirà?" al "Unisci i puntini". Ed è proprio questa la metafora che ho utilizzato con Luca qualche giorno fa.
Si parlava di Karate. Shinseikai.
Esprimevo la mia perplessa frustrazione - dovuta al noviziato - nel trasferire quanto appreso dalla pratica dei Kihon (le basi: tecniche di pugno, di parata, di calcio, di movimento, di respirazione) correttamente nella pratica del Kumite (l'arte del combattimento). Proprio qualche lezione prima mi era sembrato di vedere un collegamento tra le due attività, durante un Kumite. Quello che ho imparato nelle basi è venuto (un poco più del solito) naturalmente durante lo sparring.
Qualcuno aveva acceso una candela in una stanza enorme e buia. 
Questa illuminazione è durata abbastanza da farmi capire che il collegamento esiste, e si chiama allenamento. La candela, poi, si è spenta, qualcuno ci ha soffiato sopra ed è ritornato il buio del principiante. 
La metafora utilizzata con Luca era proprio quella dell'unire i puntini
Quelle che sembrano tecniche singole (il disegno di un puntino su un foglio) appaiono meno significative se considerate disgiunte rispetto alle altre (gli altri puntini).
I maestri vedono i puntini già uniti, e quindi il disegno risultante. Gli agonisti sono capaci di unire i puntini dal numero 1 al numero 60 in pochi secondi. 
E io?
Passo il mio tempo al Dojo disegnando puntini. Alle volte traccio qualche linea. Quella volta avevo quasi visto una figura, derivata dai puntini che avevo disegnato. Non è durato molto, ma lo ricordo bene. Poi ho guardato una seconda volta, e ho visto solo i puntini. La figura era scomparsa, volata via nell'aere come un papillon de printemps.
Dannazione. Domani porterò i fiammiferi, se la candela si spegnerà farò in modo di riaccenderla.

(riguardo il disegno, il Sensei capirà)





Thursday, March 24, 2011

Honor Thy Father

Figli miei, lasciate che vi racconti di mio padre.
Mio padre era un uomo enorme.
Caracollavo con le mie scarpette da infante inizio anni sessanta, e camminando per la casa mi trovavo davanti un omone che aveva tutto in proporzione. Le mani erano due badili da cantiere, i piedi due portaerei, ed il cappello era grande come una cesta natalizia. Gigantesco, faceva talmente tanta ombra che d'estate non avevo bisogno dell'ombrellone e del cappellino.
Quando parlava era il tuono senza il lampo premonitore. Un suo avvertimento sonoro faceva tremare i pavimenti e spostare i mobili, dando dei continui grattacapi alla mamma che in pochi secondi rimetteva tutte le cose al loro posto. 
Crescevo, ma lui rimaneva un titano.
A scuola andavo mediamente bene, qualche problema con i numeri e qualche soddisfazione con le parole. L'unico tema delle elementari dove fui preso in giro riguardava proprio il mio papà: gli attribuivo un'altezza di sei metri, e quella frase fu vergata in rosso dalla maestra, con due punti interrogativi appaiati. Non riuscii mai a capire il perché di quella correzione: mio padre era alto sei metri.
Crescevo, e lui rimaneva alto come una montagna.
Lo vedevo che usciva prima di me, la mattina. Alle volte con gli occhiali da sole, alle volte con il cappello, con l'aria di chi va a sfidare il mondo. Una volta andai a trovarlo al lavoro: aveva una divisa, e credo - in quell'occasione - di aver visto l'uomo più bello del mondo. Non era solo alto, era anche elegante, ed indossava una specie di medaglia che sembrava d'oro massiccio. Per me era un ufficiale vestito in nero ed oro, e volevo essere lui.
Crescevo velocemente, e mi avvicinavo rimanendo comunque più basso.
L'adolescenza scacciò il bambino che era in me, e lo sostituì con un altro, meno simpatico.
Lui mi guardava, cercava di darmi consigli, suggerimenti e scorciatoie. Io non potevo ascoltare, ero troppo preso da pensieri che riguardavano solo me, e nessun altro.
La fase egotista durò per un po'. Lui era sempre lì.
Crescevo ancora. Divenni padre. Un certo numero di volte.
E, pian piano, capii il senso di molte frasi che ritornavano dal passato, come un riverbero di voce proveniente da qualche parte, che rimbalza nella tua testa e che stimola e fa scaturire altri ricordi, ed altre frasi.
Ora sono - tecnicamente - adulto. Verso i cinquanta. Ho la fortuna di avere voi, figli miei. Una bella famiglia. Ho la fortuna di praticare una disciplina dura. Ho la fortuna di praticare sport, di praticare la riproduzione musicale non meccanica, di avere alti e bassi e di essere nato e cresciuto in un luogo dove queste fortune sono possibili.
E, soprattutto, ho la fortuna di poterlo incontrare, e di potergli dire le uniche tre parole che - forse -  possono scalfire una montagna di granito come lui, ricordandogli che qualsiasi poesia, racconto, giocattolo, cadeau, non potranno mai descrivere quel che si prova per il proprio papà.


Tuesday, March 8, 2011

Sequenza numero tre.

Primo: non prenderle.

Quando studi la disciplina Shinseikai ti accorgi di molte cose che, normalmente, tendono ad essere date per scontate, e quindi sottovalutate: una buona (ottima) guardia può aumentare le tue possibilità di rimanere in piedi, la capacità di nascondere le tue difficoltà (un respiro rumoroso indica stanchezza tanto quanto le vituperate mani sui fianchi), affrontare il tuo avversario (o il tuo sparring partner) con strategia e tattica giusta, e molto altro ancora.
L'aver osservato un frammento di lezione privata, erogata dal Sensei, mi ha dato la possibilità di rubare con gli occhi alcune tecniche di difesa efficaci ed il loro posizionamento in priorità. Uno sport a contatto pieno prevede, appunto, il contatto, ed è (credo) inevitabile ricevere tecniche che l'avversario è ben felice di propinare tanto quanto te.
L'esempio che si è impresso nella mia mente riguardava la difesa da una delle tecniche base, un  mawashi geri gedan (calcio circolare basso). Mi permetto di riportare le priorità (in ordine inverso, dalla più bassa alla più alta) elencate dal Sensei:

Priorità Due: effettuare uno squat (piegamento verso il basso) della gamba in difesa per ammortizzare e diminuire - se possibile - l'impatto proveniente dal sune (tibia, verso il ginocchio) sull'area interessata. Ma ne esiste una migliore.

Priorità Uno: effettuare un sune uke, richiamando appropriatamente la gamba in difesa al corpo con una direzione di 45° rispetto alla tecnica di attacco, che allo stesso tempo ammortizza e devia il colpo rendendolo inefficace. Ma ne esiste una migliore.

Priorità Zero: effettuare un sabaki, scattando all'indietro con una spinta proveniente dalla gamba avanzata (mae), mandando a vuoto l'avversario e lasciandoci pronti per una possibile e rapida tecnica di attacco.

E' bello scoprire - ogni volta - che lo studio di un'arte marziale basata sulla disciplina del corpo e della mente, basata sulla formazione di un gruppo coeso e pronto ad aiutare i membri che ne hanno bisogno e soprattutto basata sullo spirito giusto cerca di evitare - sempre - il contatto inutile. Forse è proprio vero. Il sabaki è movimento, controllo, e preparazione della prossima mossa, qualcosa che può esserci utile nella vita di tutti i giorni.

Friday, March 4, 2011

Sequenza numero due.

Superato un ostacolo, ce n'è subito un altro.
Quando pensi di essere entrato in sintonia con l'ambiente in cui ti viene richiesto di essere parte attiva - da protagonista, da gregario o da semplice spettatore -  succede sempre qualcosa che ti riporta ad una condizione non ideale. Qualche esempio:

Devi cantare con il tuo gruppo, fino alla sera prima eri in forma e ora scopri di avere il mal di gola.
Devi sostenere un allenamento importante,  e ti svegli la mattina con la schiena bloccata o non propriamente funzionante.
Devi parlare ad un audience di un tema specifico, preparato da giorni, e l'argomento è cambiato e più ostico.

L'uomo fortunato, quindi, non è solo chi riesce a ricordare i propri sogni, ma chi riesce - tra le altre cose - a gestire il cambiamento. Per dirla con qualcuno: constant change is here to stay. Un appunto per me: non perdere tempo a lamentarti. Se vuoi davvero cambiare le cose, devi essere il primo ad accettare i cambiamenti.
Il cambiamento è vita.

Wednesday, March 2, 2011

Sequenza numero uno.

Fortunato l'uomo che riesce sempre a ricordare i propri sogni.
Da grande diventerà scrittore, poeta, verseggiatore incauto, stornellista o sceneggiatore dei dialoghi del Grande Fratello n. 109, sottopagato e - ovviamente - in nero.
Per tutti gli altri comuni mortali, ricordare un sogno è un avvenimento che condiziona il risveglio e la mattina, e che sbiadisce poi durante il corso del giorno.
Ancora ricordo il sogno di stanotte.

Siamo nel Dojo.
Fine allenamento.
Circoletto del gruppo dei Megatteri (persone di una certa stazza/altezza/peso/età, composto da me, Ivano, Dario, Luca, Lorenzo) intorno al Sensei. Si discute di Karate (ma guarda un po'), dell'imminente Kyu, degli acciacchi, degli agonisti, e di altre cose.
"Quando si terrà l'esame?" chiede qualcuno, credo Dario.
"Aprile, e forse anche dopo." risponde il Sensei.
"E il programma?" chiedo io.
"Dovresti già averlo." mi assicura il terzo Dan.
Silenzio.
Nessuno osa fare la domanda successiva.
Il Sensei nasconde un sorrisetto.
Luca prende coraggio. "E quando saremo pronti?"
Il Sensei esegue una micropausa ad arte, e ribatte: "Questo siete voi a saperlo".
Poi fa una pausa un po' più lunga, un sabaki con gli occhi, mi guarda, e dice: "Tu, sei pronto?"
...

E il sogno mi va a finire proprio sul più bello.
Ho provato a chiudere gli occhi di nuovo, ma il corpo mi ricorda che non sono dentro Inception e che il sogno è volato via.
Strano. Cerchiamo di delegare ai sogni quello che dovremmo già sapere nel diurno.
Sei pronto? Sei innamorato? Hai coraggio?
Solo tu puoi saperlo.


Wednesday, February 23, 2011

Vero o Falso?

Pensiamo sempre noi stessi come qualcosa di speciale, difficilmente raccontabile se non per mezzo di discorsi profondi o di metafore più o meno efficaci. E con noi, non sono di immediata comunicazione le nostre riflessioni. Alcune rimangono lì, in attesa di raffinamento. Altre salgono pian piano su e ci convincono di qualcosa. Altre ancora vanno velocemente verso l'alto e formano le nostre idee. Processi interni, che normalmente afferiscono all'area psicologica.
Poi, nel mezzo di una conversazione casuale, sono altre persone - esterne alle proprie sensazioni o ad un contesto particolare - che ci porgono - quasi violentemente - una illuminante verità su cui riflettiamo (magari) da mesi, a cui eravamo arrivati con fatica e convinzione.

Esempio.
Alla fine di una session, il grande musicista Marco Carpita mi chiede informazioni sulla disciplina Shinseikai, e da quanto tempo sono praticante.
Meno di due anni, rispondo.
Allora hai iniziato da poco. Non dovresti essere cintura gialla? - mi dice.
Gli dico che che il passaggio di cintura è soggetto ad un tosto ed attento esame Shinseikai, e che non c'è alcuna 'corsia preferenziale'.
Mi guarda. E mi dice, comprensivo: "Non ti regala niente proprio nessuno".
Vero.

Altro esempio.
Accompagnando Alex e Lara alla sessione di nuoto, si discute tra genitori la pratica del nuoto e dello sport in generale. Chi corre, chi calcia, chi nuota. Esprimo la mia ammirazione e passione per il nuoto, che non pratico più da qualche tempo. Una delle mamme mi chiede perchè. Racconto in maniera minimale la mia minima esperienza e i minimi risultati nel mondo del Karate.
Sgrana gli occhi, e mi dice: "Allora alleni anche la mente, oltre che il corpo."
Vero.

Mai sopravvalutarti, mai sottovalutare gli altri, nel Karate come nella vita. Nel Karate un colpo può mandarti al tappeto, nella vita una semplice verità detta da altri può farti sentire presuntuoso, e farti cadere ugualmente.

Tuesday, February 22, 2011

Baby steps.


Gli specchi del Dojo si limitano - silenziosi - a riflettere figure che scattano velocemente, e che sembrano rallentare per dar luogo ad un nuovo guizzo. I suoni sono sincronizzati ai movimenti, amplificati dal riverbero della sala adibita a Dojo e dagli allenamenti passati. Mi guardo ad uno degli specchi con l'angolo di un'occhiata sbilenca. Una macchia bianca, statica ma fuori fuoco.

Tecnicamente ho diciotto mesi. Non mesi qualsiasi. Mesi Shinseikai.

Un bimbadulto allevato nel Dojo, che indossa il Karategi, imprigionato nel corpo di un quasiquarantottenne che cerca di parlottare il linguaggio degli adulti (i Kihon), alle volte gioca con bambini più grandi (i Kumite) e spesso si limita a guardare cose e forme che non riesce a comprendere appieno (i Kata).  Tra qualche tempo sarà il periodo dei "perchè?", e degli interrogativi insoluti che cercano risposta. Ad ogni perchè ne seguirà un altro, come in una catena cinetica che il Sensei si premura di spiegare durante le lezioni.

Il bimbo è in posizione di partenza/attesa del comando. Cerca di liberare la mente da pensieri inutili, che ritornano dalla porta di servizio rimbalzando sulla possibilità di svolgere un allenamento A (dove pensa di aver eseguito bene i comandi e le tecniche, e verrà in seguito smentito), un allenamento B (dove crede di aver eseguito bene comandi e tecniche ma in realtà non l'ha fatto e viene smentito subito, pronto cassa) o un allenamento C (dove sente di aver sbagliato tutto e invoca un microscopio per recuperare l'Ego oramai ridotto a livello ångström). Pensando alle tre possibilità (A, B o C) la mente si riempie ed il bimbo perde la concentrazione ("perché la perdo?") e perde - soprattutto - il tempo per eseguire correttamente comando e relativa tecnica.

Forse il Karate corrisponde proprio a svuotare la mente di pensieri e del loro eco, per far posto alla concentrazione ed alla voglia di praticare. Del resto, il talento è anche perservare nell'allenamento. E non solo del Karate, ma anche di altre discipline. Correre, ad esempio. Scrivere. 

L'importante è ricominciare.


Tuesday, January 4, 2011

Dark Matter

Inside the vehicle the cold is extreme
Smoke in my throat kicks me out of my dream
I try to relax but it's warmer outside
I fail to connect, it's a tragic divide

This has become a full time career
To die young would take only 21 years
Gun down a school or blow up a car
The media circus will make you a star

Dark matter flowing out on to a tape
Is only as loud as the silence it breaks
Most things decay in a matter of days
The product is sold the memory fades

Crushed like a rose
In the river flow
I am I know