Thursday, December 30, 2010

Buoni propositi.

Una breve lista di buoni propositi Shinseikai per il nuovo anno:

- Restare calmi.
- Tenere le orecchie bene aperte.
- Respirare correttamente.
- Non perdere la concentrazione.
- Tenere la guardia alta.
- Adeguare la preparazione atletica.
- Mettere l'Ego ben al di sotto della Passione.

E i vostri?

Tuesday, December 28, 2010

Fratelli.

Prologo.
Erano fratelli. Non nel senso biologico della parola, ma nella dimensione più profonda, non immediatamente percepibile da agenti esterni, non intuibile con l’umano talento del comprendere qualcosa senza le sufficienti informazioni. Erano diversi ed uguali, ed alle volte, in intimità, era possibile vedere l’invisibile legame che li univa, come una corrente d’aria che lambiva i loro volti senza toccarli.

Uno era straidato su un letto d’ospedale, l’altro seduto a fianco. Sorridevano stancamente a turno, come a darsi il cambio in una ciclistica fuga in salita, l’inseguitore e la lepre che giocano a cedere all'altro il proprio ruolo per esser certi di arrivare al traguardo. C’era qualcosa di speciale negli occhi di entrambi, forse un consapevole momento di non ripetibilità. Come la vita. O la vita che se ne va.

Uno stava morendo, l’altro gli era accanto, pensando...

L’incontro.
Giacomo era un ragazzino introverso, pelle e ossa, carnagione chiaropallida, la tendenza a virare lo sguardo verso il basso e l’abitudine di schiarirsi la gola quando doveva dire qualcosa, anche di non importante. I genitori si erano separati l’anno prima, e viveva con la mamma, seguendola nel trasferimento ad un altro capoluogo dove avevano altre abitazioni, altri accenti, altre usanze. Era una strana giornata di autunno: vento tiepido ma atmosfera che lasciava presagire l'arrivo del rigore invernale come imminente. Giacomo si stava avviando al suo primo giorno nella nuova scuola, nella nuova città, nella nuova vita - con l’anno scolastico già iniziato, la città ben avviata, e la vita intorno a lui che correva senza ansimare.

Bussò alla porta semitrasparente della classe, causando un silenzio insopportabile e la magnetizzazione di tutti gli sguardi ostili degli studenti seduti sui banchi. Aspettò l’assenso della professoressa ed entrò piano, cercando di non sprofondare nella vergogna e nel fastidio di essere guardato ortogonalmente da quegli occhi senza colore e senza una curiosità sana. La voce della prof che scandiva il suo nome alla funerea audience era di carta vetrata, a grana grossa, e Giacomo - in quel preciso momento - sperò di scomparire. O almeno di essere ossidoridotto a livello subatomico. L'ossidoriduzione attraverso radioestesia - puntualmente - non si verificò, e Giacomo venne accompagnato dalla voce abrasiva al suo banco. Giacomo sedette, guardò a sinistra, a destra, controllando gli sguardi cinerei che man mano si spegnevano, e ricominciò a respirare.

"Ciao. Sono Alfredo Quattordici"

Non aveva notato la presenza al suo banco. Non aveva notato che i banchi erano per due persone. Girò la testa verso la voce, ed ammutolì, lasciando le labbra schiuse per diversi millimetri. Era un ragazzino come lui, ma era... diverso. Aveva la pelle scura, con qualche riflesso metallico, un vestito strano, due occhi profondi e grandi. Non aveva capelli. E sorrideva.
Oh capperi.
Giacomo sapeva benissimo cos'era un androide, anche se non ne aveva mai visto uno. Finora.
Giacomo cercò di ricambiare il sorriso alla meglio. Era stato il primo sorriso che aveva ricevuto da quando si era trasferito nel nuovo capoluogo, ed il sorriso di ritorno che aveva prodotto non si era rivelato un gran che. Il microdubbio lo rose scatenando la reazione incontrollata della mano nella tasca alla ricerca di qualcosa, un pegno da lasciare al ragazzino che l'aveva salutato per primo, vista la sua cronica manchevolezza con il parlato. Estrasse dalla tasca una pallina di acciaio, di quelle per costruire le forme geometriche. Pensò che come pegno iniziale di una amicizia robotica fosse veramente un disastro di irriverenza, ma in tasca aveva null'altro e non poteva far passare il momento. Alzò le sopracciglia due volte, e passò la pallina nelle mani - perfette - dell'altro, che prima lo guardò grato e incuriosito, e poi posizionò lo sguardo sulla pallina come se fosse il Koh-I-Noor. Il resto della lezione di quel giorno, per i due, passò senza importanza, tra le occhiatacce dei lugubri che lampeggiavano ad intermittenza.


L'amicizia.
Alfredo Quattordici venne a sapere parecchie cose su Giacomo e sul posto da dove veniva. Il padre di Giacomo era un Ingegnere che costruiva palazzi, e la mamma invece una Biomeccanica. Quando i suoi tornavano dal lavoro, la sera, litigavano fino all'ora di andare a letto. O almeno, Giacomo li sentiva in blatero fino al tocco di Morfeo. La situazione si trascinò per diverso tempo, e forzò la naturale pigrizia di Giacomo a cercare una ragione per rimanere, almeno qualche ora, fuori di casa quando gli strombazzanti rientravano dalle loro occupazioni. E questa ragione era ancora da trovare, ora che il papà e la mamma avevano deciso di percorrere due strade separate.

Anche Giacomo imparò parecchie cose da Alfredo Quattordici. La sua pelle era un composto di titanio, ed il numero dopo il nome era una convenzione imposta dalla legge. Ogni dodici mesi doveva rientrare - per una settimana - in un Centro Specializzato per il Cambiamento, dove veniva applicata una procedura che adeguava il suo corpo all'età anagrafica. Non mangiava, ma poteva apprendere. Era guardato malissimo dai suoi coetanei e generalmente osteggiato quasi apertamente (i movimenti per i diritti dei Pensanti sarebbero pienamente maturati solo cinquant'anni dopo), ma nessuno osava toccarlo per paura della sua forza e resistenza fisica. Era stato adottato dai suoi genitori perché non potevano avere figli, e legalmente inserito nella nuova famiglia tramite regolare richiesta all'Anonima Androidi.

Erano una strana coppia di ragazzini, che passavano molto tempo insieme, che alle volte non parlavano, e che venivano costantemente sbeffeggiati dalla comunità studentesca con vari epiteti, da 'Carne con Scatola' a 'gli RH Negativo'.  Alfredo Quattordici ne soffriva un po', ma non lo faceva vedere. Giacomo ne soffriva un po', ma non riusciva a nasconderlo. Spesso li vedevi passeggiare sulla camminata del laghetto vicino al centro residenziale, giocando a far rimbalzare i sassi come ranocchie o sdraiati sull'erba a lasciar passare il tempo raccontando sogni e speranze. Altre volte prendevano la Sotterranea e si recavano alla Vecchia Città, anche in zone non propriamente tranquille, Giacomo poteva contare sulla possanza fisica di Alfredo Quattordici, e Alfredo Quattordici sulla silente sagacia di Giacomo.

E proprio durante una di queste gite clandestine scoprirono un parco ben curato ed una palestra piccola, non pulitissima e tappezzata di vecchie fotografie, abitata da un Maestro, vecchio campione di arti marziali, che sarebbero diventati i luoghi dove trascorrere il tempo una volta finite le lezioni.

L'adolescenza.
Il tempo scorreva al ritmo dei Cambiamenti di Alfredo Quattordici ed alle alterazioni tricologiche di Giacomo. Alfredo Quattordici era molto bravo nella coordinazione e nella riproduzione dei movimenti del corpo, che cercava di insegnare a Giacomo. Giacomo era portato per la letteratura e le scienze, e si rendeva disponibile alle ripetizioni per Alfredo Quattordici. Avevano stretto un patto: l'uno doveva aiutare l'altro a superare le proprie difficoltà e debolezze nell'area in cui l'altro dimostrava eccellenza e talento.

Al parco, nelle giornate di sole, Alfredo Quattordici seguiva Giacomo nei suoi voli di fantasia e nei suoi giochi di rime.
"Cosa devo scrivere?" chiedeva Alfredo Quattordici.
"Non pensare a cosa devi scrivere, pensa a cosa vuoi scrivere." ribatteva Giacomo. 
"Vorrei scrivere il silenzio, e la natura.".
"Ottimo. Fai danzare le parole, cercale fino a che non si muovono come un corpo di ballo.".
"Vediamo... Inseguo il silenzio e lui fugge via".
"Bene. Bella frase. Cosa ti viene in mente per accompagnarla?"
"Devo fare la rima con via..."
"Daaai. Non devi farlo innaturalmente. Se la rima viene, lasciala, ma se la cerchi non la troverai.".
"Tra gli alberi corre, nel vento si perde".
"Buona, ma puoi migliorarla.".
"Come?".
"Cerca di descrivere meno, e di sentire di più. Cosa vuoi dire veramente?".
"Che cammino tra gli alberi e il silenzio mi fa paura, ed allo stesso tempo... è bello.".
"Ci sei vicino.".
"Inseguo il silenzio, si perde nel vento
 Il tempo tra gli alberi, cammina lento"
Giacomo sorrise. "Hai visto. Hai scritto una rima. Come ti è venuta?"
"Non lo so.".
"Ecco perchè l'hai scritta. E' la rima che ha cercato te, e non viceversa.".
Alfredo Quattordici sorrise, ed abbracciò Giacomo con lo sguardo.

Nella palestra del vecchio campione, quando pioveva, Giacomo seguiva Alfredo Quattordici nelle sue perfette rappresentazioni dei movimenti che aveva copiato guardando il vecchio maestro nei suoi allenamenti pomeridiani.  Giacomo guardava Alfredo Quattordici rappresentare le figure con la stessa aria assorta e rapita che Alfredo Quattordici assumeva quando Giacomo cantava i suoi versi. Alfredo Quattordici cantava la poesia del corpo con naturalezza, senza balbettii o indecisioni.
Alfredo Quattordici e Giacomo erano appaiati: uno proponeva una serie di movimenti di braccia, gambe e corpo in sequenza, e l'altro cercava di replicarli.
Alfredo Quattordici annunciò la sequenza, che eseguì subito dopo. 
"Guardia sinistra, Calcio circolare basso sinistro, Pugno sinistro, Gancio Destro, Piccolo Montante sinistro.".
Giacomo riprodusse la sequenza, aspettando le indicazioni di Alfredo Quattordici.
Alfredo Quattordici, con voce bassa, iniziò il commento.
"Hai sbagliato la posizione di guardia, le gambe devono essere leggermente piegate - come molle pronte a scattare. Il calcio circolare non era abbastanza... circolare, devi ruotare prima il piede e la gamba opposta e poi, con tutto il corpo, girare l'altra gamba cercando l'impatto in una zona che è circa dieci centimetri sotto il ginocchio. Hai eseguito le tecniche di braccia senza movimenti di anca e spalla, mancando il bersaglio e, nel caso del Piccolo Montante sinistro, la zona che hai colpito era molto più alta, quindi la tecnica si è dimostrata inefficace e...".
Alfredo Quattordici si interruppe, era entrato il Maestro.
Il Maestro si avvicinò quasi levitando sul pavimento, guardò prima Giacomo, poi Alfredo Quattordici, e tra il bonario ed l'ironico disse "E' arrivato il Maestro, il Maestro di Shinseikai.". L'altezza (percepita) dei due ragazzi raggiunse il livello del tatami, salutarono mogi il Maestro e si misero a disposizione nel lato in cui gli studenti usualmente studiavano forme e movimenti. Tutti e due credettero che la parola pronunciata dal maestro fosse il suo nome, e tra loro - da quale momento - lo chiamarono così.

La vita amorosa di Giacomo non era costellata di successi. Alfredo Quattordici aveva chiaramente percepito l'interesse di Giacomo per una brunetta vestita di scuro, che evitava accuratamente ogni possibile occhiata, dedicandosi invece a ricevere e rimandare guardatine a fusti delle classi superiori. Altrettanto chiaramente aveva percepito un'adorazione sfrenata, nei confronti di Giacomo, da parte di una ragazzina meno appariscente, con occhiali al seguito, che Giacomo ignorava (o meglio, faceva finta di ignorare). Questa storia dell'amore e delle infatuazioni monodirezionali occupò i cicli macchina di Alfredo Quattordici per molto tempo, senza soddisfare la sua curiosità o arrivare ad una plausibile spiegazione.

La vita sociale di Alfredo Quattordici non era costellata di successi. Giacomo percepiva ostilità e pregiudizio nei confronti di Alfredo Quattordici, che gli rimanevano attaccati come una visibile aura anche quando era solo. Gli androidi venivano visti - in essenza - come un male necessario, una rappresentazione dell'uomo quando l'uomo non era disponibile. Un sostituto. Giacomo pensava sinceramente che Alfredo Quattordici avesse qualità e sensibilità non comuni anche nel genere organico, e che la loro differenza strutturale non avrebbe mai messo a repentaglio una vera amicizia. Più Alfredo Quattordici veniva sottoposto ad ostracismo, più il legame con lui acquistava forza e resistenza all'altrui imbecillità.

L'età adulta.
Giacomo diventò un Biomeccanico, come sua madre, e data l'enorme richiesta di personale specializzato trovò lavoro quasi immediatamente in una multinazionale che costruiva parti di ricambio e software per uomini in età avanzata, lavorando nel reparto di ricerca e sviluppo.
Alfredo Quattordici diventò personal trainer, e riuscì ad agganciare il filone delle attrici famose in OloTV, che consideravano gli androidi come l'unione - ideale - tra una guardia del corpo e un istruttore con un talento speciale per potenziare corpo e psiche.
Non riuscivano ad incontrarsi tutti i giorni, anche se lavoravano nella stessa città, ma avevano mantenuto la vecchia abitudine di incontrarsi al parco per comporre sonetti (se splendeva il sole) o nella vecchia, polverosa, indimenticabile e romantica palestra a far flessioni e sentire i suggerimenti del Maestro, sempre arzillo ma accompagnato da un bastone di legno non lavorato su cui poggiava i combattimenti vissuti ed accumulati durante gli anni.
Intorno al trentunesimo Cambiamento di Alfredo Quattordici, in un pomeriggio di sole nel parco, Giacomo iniziò ad inventare e declamare un sonetto che parlava di un incontro casuale, di batticuore ed inappetenza, di fiori regalati e voglia di urlare felicità al mondo. Alfredo Quattordici non aveva mai provato sensazioni simili, ma aveva capito che Giacomo era innamorato. Si fermò, i grandi occhi aperti che fissavano lo spazio avanti a sé, ed iniziò a sussultare impercettibilmente. Giacomo, a sua volta, capì che Alfredo Quattordici stava piangendo. Di gioia.
Un paio di Cambiamenti dopo Giacomo e la compagna ebbero la fortuna di avere un figlio, maschio. Giacomo non ebbe il minimo dubbio sul nome: sarebbe stato quello del suo Amico della vita, senza il numero che continuava a rinchiudere suo Fratello nella schiera dei quasi uomini. Il piccolo Alfredo non divenne solo la luce di Giacomo e signora, ma anche quella dell'androide che figli non poteva avere.
Gli incontri al parco e nella piccola palestra continuarono, in tre.

Tempo dopo, durante un'estate particolarmente calda, Alfredo Quattordici iniziò a manifestare qualche anomalia. Non riusciva ad esprimersi correttamente, soffriva di balbuzie, rimaneva fermo e silente più della sua abituale ed inorganica flemma.
"Dovresti farti visitare.".
"D-d-da-a chi? Il mio progetto è sta-a-a-a-to abbandonato...." lunga pausa " dieci anni fà.".
"Proverò a vedere in azienda, facciamo tanto per gli uomini attraverso componenti robotiche, potremmo aver fatto qualcosa per gli androidi attraverso parti organiche." cercò di farsi coraggio Giacomo, ma la sua voce era traballante, senza cognizione nè convinzione, sospettando qualcosa di serio.

I sospetti di Giacomo furono confermati da uno specialista:  Alfredo Quattordici aveva raggiunto uno stadio in cui ogni Cambiamento poteva essere fatale. Il suo involucro non poteva più essere cambiato, ed allo stesso tempo l'involucro stava causando la degradazione o la perdita delle funzionalità più elevate. Le sue investigazioni in azienda diedero esito negativo: tutti i capitali per la ricerca e sviluppo venivano indirizzati per la sostituzione di parti organiche con componenti biomeccaniche, e non viceversa.
Alfredo Quattordici stava morendo.

Epilogo.
... a tutti quegli anni passati insieme, e al significato della parola fratello.
Giacomo sedeva, e non riusciva a smettere di sorridere, e di piangere. Non c'era bisogno di questo, per scoprire cos'è un fratello. Non c'è bisogno di perderlo, per capire affetto, amore, rispetto. Avrebbe voluto esser lui, un organico, su quel letto, al suo posto.
Alfredo Quattordici schiuse le labbra, a fatica.
"Vivi ... ama per me, fratello".
Cercò la mano di Giacomo, e gli passò l'oggetto che aveva custodito, con robotica cura, per tutto l'arco della sua vita: una piccola sfera d'acciaio, il pegno dell'amicizia che neanche la morte riesce a scalfire.

 [Un sentito grazie ad Isaac e Cyril per l'ispirazione :-)]

Friday, December 17, 2010

La Lista Nera.

Grazie alle mie presunte o vere capabilities di hacker, sono riuscito ad identificare l'indirizzo IP dell'iPhone del Sensei, utilizzare nmap per effettuare lo scanning di tutte le porte TCP e UDP non bloccate, rilevare la presenza di un microserver SSH installato tramite JailBreak sul telefono e quindi connettermi - da remoto - cercando di forzare la password attraverso un brute-force attack. Con soli 28 minuti di tentativi, giusto il tempo per un brunch, ho effettuato il fetch della password e sono riuscito ad accedere alla famosa blacklist del Sensei, di cui faccio il publishing di uno snippet in real time, e che conto di rivendere a giornali specializzati per raccogliere fondi con cui conto di comprare un manuale per scrivere in italiano non inquinato dall'informatica o acronimi e una dentiera post-rappresaglia-Sensei.

  • Gabba si lamenta del suo Sensei.
  • Gabba non regala uno o più iPad al suo Sensei.
  • Gabba fa gesti strani ed equivoci con la mano.
  • Luca scappa via per giocare a calcetto invece di partecipare al turno non-agonisti.
  • Gabba si addormenta e russa.
  • Lorenzo si rifiuta di prendere la dose di bromuro.
  • Gabba non regala uno o più iPad al suo Sensei.
  • Tullio non sa fare la doppia capriola carpiata come se fosse Antani.
  • Gabba parla troppo o non parla affatto.
  • Gabba scambia il Gedan con il Jodan e viceversa.
  • Gabba ha l'iPhone 4.
  • Antonio mangia dolci di nascosto e in contumacia.
  • Gabba non regala uno o più iPad al suo Sensei (Ma perchè tre volte, chiedo. Lascia fare, mi risponde.)

Il resto sarà pubblicato a puntate su 'Picchiare Oggi' in edizione limitata.  Adesso esco, vado a fare una visita ad un venditore di urne cinerarie che mi potrebbe far comodo, fanno degli sconti speciali agli spilungoni...

Wednesday, December 15, 2010

Un racconto Shinseikai: i tre cercatori.

A volte si incontrano storie così intense che sembrano scritte per romanzi stampati su carta di second'ordine. E se anche il genere - commedia, tragedia, satira - viene dimenticato, e il finale lasciato nello scantinato dei ricordi - l'assassino è il maggiordomo - qualcosa comunque ci rimane dentro.
Non sappiamo bene cos'è, non sappiamo descriverlo adeguatamente, ma ci da fastidio quel sassolino nel cuore che lascia effetti collaterali strani e inaspettati, come gli occhi umidi, una discreta difficoltà nell'esprimersi correttamente e un tumulto interiore a prova di mille camomille.
Questa è una di quelle storie. Ve la racconto così come l'hanno raccontata a me, e la persona che me l'ha raccontata non è un tipo affidabile, per cui prendere o lasciare.
E' ambientata in un paese lontano, dove non c'è una sola lingua ma tanti idiomi e tante maniere per dire quello che, nel mio paese, si dice con una sola parola. E, senza ulteriore indugio, eccola qui.


Qualche tempo fa, in un posto in capo al mondo, ho conosciuto un gruppo di Cercatori, che aveva lo scopo di snasare, trovare ed impossessarsi di qualcosa che non era possibile trovare nel proprio paese. I Cercatori erano in tanti: io me ne ricordo tre.
Uno era soprannominato il Maestro, praticava una disciplina dura, era sempre in movimento e alle volte lo vedevi correre. Dico, non riuscivi proprio a vederlo. Era una macchia sfocata, subito sparita, ma lo sapevi che era lui.
Uno era soprannominato il Profondo, sapeva scendere nelle profondità della terra, dove c'è solo calore, lava e morte, e riusciva sempre a cavarsela. Aveva due mani come due badili, e le usava per andare giù e per tornare su.
Uno era soprannominato il Cantore, sapeva descrivere le cose con liriche e poesie, a giocava sempre a far le rime. Di quello che scriveva uno teneva e dieci buttava. E se gli chiedevi "Perchè butti quel che scrivi" rispondeva "Perché è già scritto".
Me li ricordo bene, erano tre spilungoni, ma diversi. Quelle rare volte che entravano in locanda insieme gli inservienti facevano segni strani riguardo la loro altezza.
E proprio una sera d'inverno li incontrai in una taverna, mangiavano una zuppa calda.
Chiesi di accomodarmi, e mi offrirono il loro piatto. Inchinai il capo per ringraziare, e dopo aver finito la mia razione chiesi loro cosa cercavano.
Il Maestro disse "Cerco il mio limite. Cerco di capire quello che valgo. Cerco di migliorarmi e nuove maniere per arricchire la mia disciplina ed essere un Maestro migliore".
Il Profondo disse "Cerco una strada nuova. So scendere all'inferno e risalire, e anche se rischio la vita ogni volta vorrei capire se esistono altre strade da percorrere".
Il Cantore disse "Cerco l'ispirazione per scrivere qualcosa che posso rileggere. Cerco di scrivere qualcosa che possa ispirare anche gli altri".
Guardammo il fuoco nel camino, per un po', e poi ci si salutò per coricarci.
Non li vidi più per diverso tempo.
Tornai alla taverna molte volte, chiesi di loro, ma non li trovai.
Passò la stagione del freddo e delle piogge, ed arrivò quella dei fiori. E, una sera, trovai il Maestro, il Profondo ed il Cantore allo stesso tavolo, ma con il camino spento.
Erano proprio loro, ma avevano un'altra aria. Erano diversi. Chiesi se potevo sedere al loro tavolo, e feci portare tre piatti in tavola per sdebitarmi della loro gentilezza invernale, sorrisero ed accettarono l'invito.
Quando ebbero finito di mangiare si confidarono.
Il Maestro, a bassa voce, disse "Ho cercato e trovato il mio limite, l'ho superato tra mille e trenta avversari, difficoltà e dolori, e ho capito qual è il mio prossimo ostacolo da superare: un nuovo limite che scruta il vecchio limite come se fosse un infante".
Il Profondo, guardando la finestra, disse "Ho trovato una strada nuova, e va verso l'alto, non dove c'è roccia e lava e morte, ma verso le cime della montagna, tra nuvole e acqua, e sarà ancora più difficile da percorrere".
Il Cantore rimase in silenzio. Prese un foglio di carta, ed iniziò a scrivere: "Ho accompagnato il Maestro ed il Profondo nelle loro avventure, cercando l'ispirazione. Ho trovato storie, gioie, lacrime, persone. Ho trovato così tante cose che le parole non mi sembrano abbastanza."
Li vidi uscire, uno ad uno, con espressioni differenti, lunghi come tronchi d'albero, e mi domandai cosa chieder loro quando li avrei rivisti.


Dicevo, quello che mi ha raccontato questa storia non è uno affidabile. E' uno che gira per taverne. Ma la storia sembra credibile. Ho chiesto ad un mio amico, un bravissimo disegnatore, di tenere gli occhi aperti, tante volte li trovasse insieme da qualche parte.
Se li troverà, mi farà un disegno, così avrò la prova che i Cercatori esistono e che stanno inseguendo qualcosa che non è solo la loro ombra.


Saturday, December 11, 2010

Made in Japan: Strange Days

Anche i menestrelli e i contastorie alle volte si inceppano come un vinile troppo ascoltato. La quantità di informazioni e sensazioni accumulata in pochi giorni inizia a stimolare qualche effetto collaterale, sono pieno di idee e non ho il talento e lo stile per vergarle su carta (si fa per dire), e il lessico, i trucchi ed i modi di scrivere che mi sono stati insegnati fino ad oggi non sono abbastanza. Sono giorni strani.

È dicembre pieno e sembra primavera, la vista di un Gaijin (uno straniero) mi provoca un negativo sobbalzo interiore, penso a togliermi le scarpe prima di entrare nella microcamera, sulla scala mobile mi posiziono automaticamente sulla sinistra, sono circondato da persone che si mettono in fila e non cercano di passare avanti, i pasti caldi e buoni costano meno di dieci euro, tecnicamente compio 47 rivoluzioni solari, sono a Tokyo, in Giappone, ho visto un maestro ed un amico dimostrare il coraggio di essere uomo, ho conosciuto un altro amico che è stato il mio Virgilio, invento storie immaginifiche che traslate in scrittura sembrano panni non lavati, rimango senza fiato nei giardini e nei templi di questo paese, il mio inglese ha raggiunto livelli stradali, impugnare un cucchiaio sembra un gesto goffo, e - non ultimo - mi domando se riuscirò ancora a scrivere qualcosa di sensato nel prossimo futuro.

In questi strani giorni ci sarebbe materiale per mille storie, storie strane e belle. Prima o poi le troverò, quelle dannate parole, ma non ora. C'è un tempo ed un luogo per tutto, ed ora è tempo di viverlo, prima di scriverlo.
Auguri Gabba, sei un tipo fortunato. Hai passato i compleanni precedenti a pensare, passa questo ed eventuali altri a vivere, donare felicità, amare chi è lontano, sorridere di più.

"Cherish your life while you're still around"
:-)


- Posted using BlogPress from my iPad

Location:Tokyo, Japan

Wednesday, December 8, 2010

Made in Japan: Shinseikai e cuore.

Parte I - L'arrivo.

L'aria, nella hall dell'albergo, inizia a diventare elettrica. Il nostro sguardo è fisso sulla porta scorrevole dell'entrata, aspettando l'arrivo di Tanaka Kancho, che si palesa sorridente e pronto per portarci nel luogo dove si insegna la via. I passi verso la stazione di Kyoto sono elastici e silenziosi, e le poche parole di Tanaka Kancho vengono intercettate e tradotte da Lorenzo, il nostro intermediatore con i suoni, i segni ed i sogni di questo mondo così lontano.
Il viaggio in treno sembra interminabile, e man mano che ci allontaniamo da Kyoto il contatto con la realtà sembra essere cambiato, l'esterno è poco illuminato, le scritte in inglese svaniscono, le scritte in Romaji sono tenute al minimo, si parlotta a bassa voce, parte qualche sorriso sovrapposto alla tensione per l'evento che si sta per compiere.
Alla stazione ci accolgono i membri Shinseikai con le loro vetture e sorrisi larghi come meloni giapponesi. Non sembra di essere in trasferta, ma a casa!
Le strade sono buie, non illuminate, e Kyoto sembra essere distante come Arcturus, si scambia qualche parola in macchina, sempre con Lorenzo nei panni di Google Translate, fino all'arrivo in una struttura illuminata.
Si esce dalla notte per entrare nella scuola, nell'evento, nell'emozione.

Parte II - I bambini Shinseikai.

Ci è concesso l'onore di seguire attivamente il turno dei bambini, con il riscaldamento, i Kihon, ed il Kumite. I miei occhi si velano e rimangono umidi nel vedere questi esserini, vestiti con il Karategi, che ci guardano sorpresi e divertiti mentre ripassiamo le basi insieme a loro. In loro vedo le facce dei miei figli e mi commuovo, e spero che non si veda: chissà cosa fanno Melissa e Mirco, e Alex e Lara. Ogni tanto incrocio lo sguardo con qualcuno di loro. I più coraggiosi tengono lo sguardo e sorridono, e il cuore mi si scioglie, e non posso fare a meno di riflettere su quanto due culture siano diverse e quanto i sentimenti possano renderci molto simili.
Arriva il momento del Kumite. Capiamo che i bambini dovranno affrontarci, ci disponiamo larghi sul tatami, e ad un comando di Sensei Iwasaki i bambini scattano per venirci incontro, spesso gareggiando a chi arriva primo per affrontare il Gaijin di turno. Qualcuno sorride, qualcuno ha uno sguardo beffardo, qualcuno è imbronciato: tutti si battono come leoncini, e qualcuno è talmente piccolo che non posso fare a meno di incoraggiarlo (Ganbatte!) mentre tira Tsuki e Geri con una frequenza e potenza impressionante per la loro età. La lezione dei teneri bimbi giapponesi volge al termine con la concentrazione, lo stretching ed il saluto finale, che mi regala un'emozione da raccontare quando lo spazio ed il tempo saranno propizi.

Parte III - La prova.

La prova di Filippo parte piano, ma acquista subito il ritmo e la potenza di un esame duro, e speciale. Le basi (i Kihon), le tecniche ai Pao (i colpitori) si susseguono in maniera impressionante, lasciando pochissimo spazio a distrazioni o a pericolosi cali di concentrazione. Tutta l'attenzione dei giudici, ed in particolare del giudice Quarto Dan Shinseikai, è rivolta a Filippo. Cerco di guardare e di interpretare le movenze e le espressioni facciali dell'esaminatore, con scarsi risultati. Il Glaciale non fa una grinza, ma riesco a scorgere tantissimi cenni con il capo - dall'alto verso il basso - che nel linguaggio dei segni comune, valido per fortuna anche in Giappone, equivale all'approvazione. Dopo l'equivalente di due lezioni Shinseikai (e chi frequenta il Dojo sa perfettamente qual è l'impegno richiesto) viene il turno dei Sabaki, gli spostamenti laterali utilizzati per difesa ed attacco. Filippo sceglie il suo partner (guarda caso, il Sensei Iwasaki), ed illustra al Glaciale diverse tecniche che ammutoliscono tutti gli studenti, e non solo loro.
Il Glaciale stavolta annuisce palesemente, e non l'ho solo intuito. L'esame sembra interminabile, ed il meglio deve ancora venire.
È il turno dei Kata (le forme), movimenti belli, ipnotici, mortali. Il Dojo è silenzioso, riempito dai suoni delle forme ed il fruscio del Karategi, a volte morbido, a volte teso. I Kata lasciano posto alla prova dei trenta Kumite, trenta combattimenti senza interruzioni, trenta ostacoli che durano un minuto e mezzo che durante l'esecuzione - credetemi - sono molto, molto più lunghi.
I combattimenti si susseguono ed il tempo inizia ad allungarsi, e sembra non finire mai. Molti degli avversari vengono messi al tappeto, si rialzano, anche a fatica, e continuano a combattere: non è concessa nessuna scorciatoia, nessuna via breve, c'è solo fatica, sudore, coraggio, e soprattutto lo spirito giusto.
Man mano tutti gli studenti, e anche gli avversari, iniziano con gli occhi (noi italiani anche con la voce) ad incoraggiare Filippo per affrontare avversari che non indietreggiano, non si tirano indietro, combattono come un vero Samurai sa fare. "GANBATTE, FILIPPO" urlo, non ti arrendere, la strada è ancora lunga.
Il Glaciale scrive sulla lavagna segni provenienti da Marte, ed io ho perso il conto, non riesco a volgere gli occhi dal tatami, come mesmerizzato.
Gli ultimi Kumite sono eseguiti con le cinture nere, la prova - da dura - diventa quasi impossibile.
Cosa ci porta a superare i nostri limiti? Lo spirito giusto. Il ricordo di persone care. Il ricordo di chi non c'è più. Il coraggio. L'aiuto di tutti gli studenti del Dojo. La forza di combattere per chi non può farlo. L'immagine dei propri cari. La determinazione.
Il trentesimo squillo del timer ci trova in lacrime, le nostre e quelle del nostro Sensei. Non ho più paura di commuovermi. Non ho più paura.
Il Dojo diventa lacrime, applausi, urla. Il Dojo diventa festa.

Parte IV - La festa.

Il Dojo si è trasformato. Da concentrazione, ad azione, a festa. I volti sono sorridenti, Filippo è un Terzo Dan. Mi si avvicinano tutti salutando, mi parlano in Giapponese, io non capisco ma sorrido - sinceramente - e ringrazio. È tempo delle foto di rito. Mi viene concesso l'onore di intrufolarmi nelle fotografie scattate da fotocamere e migliaia di cellulari bianchi rosa grigi neri perla fucsia gialli, tutti uguali, che lampeggiano allegramente come fossero fuochi d'artificio, che cercano di immortalare il momento, come se serbarlo fuori dal cuore fosse importante. E forse lo è davvero. Quante volte potrò essere qui ancora? Quali sogni possono avverarsi? Mentre velocemente ci cambiamo e ci riaccompagnano alla stazione, mi chiedo se un giorno potrò ritornare. Alle volte la fortuna capita una sola volta nella vita. A me è capitata quattro volte, e forse capiterà ancora. La fortuna, alle volte, trova alcuni ostacoli, duri come le pietre che Filippo ha spezzato nel Dojo di Kyoto. E spezzarle sempre dobbiamo, quelle pietre.
L'immagine che mi congeda dal Dojo di Kyoto è quella del saluto del maestro Iwasaki. Riesco solo ad inchinarmi ed a dire "Sensei...". Lui sorride, e si inchina (davanti a me, cintura bianca, ultimo arrivato) più in basso di me.
Gabba.

Tuesday, December 7, 2010

Made in Japan: La prova.

Oggi giorno d'esame. Poche parole, molta concentrazione, e la giusta tensione che ci accompagnerà fino a stasera.
Mokuso!





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Location:Kyoto, Japan

Monday, December 6, 2010

Made in Japan: Da Tokyo a Kyoto


Il trasferimento da Tokyo a Kyoto mi regala qualche momento di riflessione sui confini tra modernità e tradizione.
Basta una sola vita per comprendere la storia e la cultura di un popolo? E' sufficiente avere un approccio compilativo - o di ricerca - per comprendere dove inizia la tradizione e finisce la modernità? O forse bisognerebbe semplicemente 'vivere' l'esperienza attraverso la quotidianità?
Non credo di saperlo, non credo ci sia una soluzione. E, nel caso del Giappone, la sfida sembra essere impari. La barriera del linguaggio e la sua complessità intrinseca e storica mi impedisce qualsiasi contatto non occasionale con la cultura giapponese, di cui intravedo qualche spiraglio grazie alle pazienti spiegazioni (a volte ripetute) di Lorenzo.
Sono sul treno per Kyoto, una meraviglia tecnologica che permette ai vagoni di fermarsi esattamente dove le persone attendono, con una fila ordinata, di poter entrare. E sullo stesso treno, il controllore e la ragazza che vende i refreshments effettuano un grazioso inchino quando entrano e quando escono, come ad omaggiare il viaggiatore-cliente e ringraziarlo per aver portato il soldo quotidiano. Metafora banale, forse, ma vederla dal vivo è (fortunatamente) non così scontata.
Intanto mi godo un viaggio in un treno pulito, silenzioso, preciso. Un sostantivo e tre aggettivi che, nel paese da dove vengo, spesso non possono essere coniugati.
E, una volta arrivato a Kyoto, vorrei passare un parte del pomeriggio in un giardino così... ;-)












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Location:Kyoto,Japan

Sunday, December 5, 2010

Made in Japan: Kyoto Dreams

Ed eccomi qui, guardando il sole che sorge nella terra appropriata, sfruttando gli ultimi minuti prima di prendere il treno per Kyoto.
Il primo segmento di viaggio è volato via, ne restano due, che avranno temi diversi. Ascolto le ultime note dei corvi che mi fanno compagnia, mentre il giorno rischiara mente e corpo...


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Location:1丁目,Ota,Japan

Made in Japan: Kamakura Day

I treni, in Giappone, hanno qualcosa di ipnotico. La voce che annuncia la stazione sembra essere molto cortese ed allo stesso tempo distante, le persone - costantemente - intermediano la propria comunicazione attraverso cellulari, quasi tutti della stessa forma, qualcuno legge libri in verticale, qualcuno dorme, a volte qualcuno parla. Cose apparentemente normali, che qui diventano aliene e quindi più interessanti. Perché normali e diverse e straniere e gemelle. Il treno come metafora della comunicazione e dell'incomunicabilità, e non solo come mezzo di trasporto. Forse dovevo proprio venire in Giappone per scoprirlo.
Oggi il treno mi ha portato a Kamakura, un posto meraviglioso, che ho potuto assaporare grazie alla compagnia dei miei compagni di viaggio. Sensazioni difficili da spiegare, come se la capienza delle parole non rendesse giustizia alla potenza dell'impatto visivo.
Proverò a spiegarlo attraverso figure prese durante il giorno. Un'altra metafora, un presunto parolaio che (in)comunica attraverso fotografie di un giorno non ripetibile...











































E' vero, lo scopo di un viaggio non e' arrivare, ma oggi ero felice di essere arrivato a Kamakura. Non riesco ad immaginare una maniera più bella di chiudere la prima delle tre parti del mio soggiorno in Giappone.
Domani: Kyoto.


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Location:1丁目,Ota,Japan

Made in Japan: Shinseikai training e iperdensità.

L'esperienza giapponese sta diventando densa, e riportarla con parole inizia ad essere difficile. La giornata di ieri è durata 36 ore, con un buon training Shinseikai in una palestra dove si allenano i campioni di K-1, e dove - vicino ai sacchi - ho visto una foto con dedica di Andy Hug. Sono stato veramente colto dall'emozione, e spero di poterci ritornare. Ho perso il conto delle volte in cui sono stato in Metro e dei distretti che ho visitato, ho conosciuto Roberto, un artista eccezionale che vive e lavora a Tokyo, sono stato ad Asakusa per una visita al famoso tempio, poi una sana sessione Shinseikai e - stranamente sopravvissuto - appuntamento a Shibuya per cena.
Il tutto, frullato insieme, mi ha anestetizzato fino a stamattina, quando accendendo il telefono ho scoperto di avere fatto questa foto:






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Location:1丁目,Ota,Japan

Saturday, December 4, 2010

Made in Japan. Before the Storm.

Una mattinata di sole, temperatura gradevole, i corvi che per una volta non emettono quel tipico lamento assomigliante al richiamo di suocera, una giornata intera, da vivo e da spendere a Tokyo: una mattinata perfetta.
Alcuni pensieri ed episodi della giornata di ieri riaffiorano alla mente in maniera compressa, spicciola e adattata al modello giapponese, che cerco di elencare di seguito:

- Sia benedetto l'inventore del Washlet. Mai tecnologia fu più apprezzata in quei momenti dove sei solo e devi esprimere tutto te stesso (la toilette).
- L'inferno, se esiste, è un posto ipertecnologico e pieno di giocattolini da comprare, come il quartiere di Akihabara, ma tu non hai la carta di credito oppure ci lavori come uomo delle pulizie.
- La moda giapponese è esattamente incomprensibile come la moda Italiana. L'universalità del cattivo gusto.
- Non è vero che i giapponesi sono robotici e senza sentimenti, ieri sera abbiamo avuto due ospiti a cena e si sono dimostrati ampiamente organici, almeno fino alle 23. Poi sono andati in stand-by.
- Il mio lessico giapponese è aumentato del 100% in pochi giorni. Adesso so dire 'Mi scusi'.
- La metro di Tokyo dovrebbe essere preservata dall'UNESCO come patrimonio dell'umanità.
- I giapponesi sono estremamente gentili, ma se devono passare attivano la modalità 'Muted Caterpillar' e per passare nuclearizzano come schiacciasassi gli sfortunati avventori innanzi posizionati.
- Ogni fermata della metro di Tokyo ha un suono singolo e distinguibile, come una suoneria di cellulare programmata da Bach sotto acido lisergico.

Oggi primo allenamento giapponese, seguirò il Maestro nella sua avventura. Spero che al ritorno non dovrò comprare un biglietto per ogni parte del mio corpo che prenderà la metro, andrei immediatamente fallito.


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Location:1丁目,Ota,Japan

Friday, December 3, 2010

Made in Japan: Size counts.

Svegliarsi con qualche ora di anticipo ha sempre qualche vantaggio: ad esempio, stamattina sto godendo di una nipponica tempesta d'acqua (non la definirei pioggia), scrivendo il mio blog da una lobby con vista umida su vero giardino giapponese, lasciando al Sensei l'utilizzo della stanza condivisa (si dorme in due ma è utilizzabile da una sola persona alla volta).
La stanza ha un tatami, due letti altezza tatami (futon, credo si chiami l'oggetto), un ingresso omeopatico ed un bagno motorizzato Mitsubishi modello Terminator. Il tutto ha dimensioni lillipuzianamente gradevoli, che stimola una profonda riflessione sullo spazio vitale vero e presunto.

La mia giornata inizia ora, si va a caccia di esperienze, e di una colazione :-)


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Location:1丁目,Ota,Japan

Thursday, December 2, 2010

Made in Japan - Day One

Che giornata!
Sono a Ota (Tokyo), e non dormo da un certo numero di ore (26?). Condivido una stanza con il Sensei che è minuscola, bella e giapponese.
Le prime impressioni del mio Giappone sono mescolate ad adrenalina, caffè, tempura, sonno arretrato, illuminanti e profonde lezioni di cultura giapponese regalate da Lorenzo, suoni e colori diversi, stanchezza ed euforia. Non riesco a disegnare una metafora decente, ma credo che il Giappone sia come un pianeta gemello, ma eterozigote. Sono un ospite appena arrivato, che terrà la bocca chiusa ed occhi e orecchie bene aperti.
A domani


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Location:1丁目,Ota,Japan