Sunday, May 23, 2010

La storia di P.

"E' uno strano."
I compagni del Dojo dicevano questo. Non apertamente, e non in maniera provocatoria, ma lo pensavano - pur rispettandolo - e lo dicevano appena sottovoce. Arrivava nel Dojo con un'aria assorta, come di chi sta pensando intensamente alla risoluzione di un problema matematico, anche se di matematico - lui - non aveva proprio nulla.
Io conosco la sua storia, e prudentemente l'ho tenuta per me, non volendo fare la figura del parolaio matto. Ma sento di doverla raccontare, altrimenti sarò costretto dalla mia seconda moglie a vendere i diritti a Tristalia 3000 o altra rivista scandalistica incassando striminziti profitti ed al contempo schiacciando quel che rimane della mia coscienza sotto il peso infame del rimorso.

P. era strano. Un ragazzo verso i 25, troppo vecchio per essere un teenager, troppo giovane per essere un padre di famiglia (non sono mica tutti fessi come me). Corporatura media, capelli neri brillanti, sguardo di chi la sa lunga e tristezza mista a bontà d'animo percepibile a trecentodue cubiti di distanza. Si presentò al Dojo e puntò direttamente al Sensei chiedendo di poter partecipare alle lezioni.
Ricordo l'impatto che la sua voce ebbe su di me. Italiano perfetto, timbro squillante, come di uno speaker professionista, eppure controllato in modo da non disturbare l'ambiente circostante.
Il Sensei chiese se aveva con sé il cambio, ed alla risposta affermativa accordò una lezione di prova, da consumarsi subito. Da quella volta, P. fu una presenza costante ed invisibile del Dojo. Costante per la sua capacità di materializzarsi sempre e comunque all'ora prestabilita, nonostante tuonifulmininfluenzecaldoestatenevegrandinescioperodegliautobus.
Invisibile perchè P. parlava solo se veniva interrogato. Mi spiego, non era un burbero. Era sempre cordiale con tutti, e rispondeva puntuale alle domande. Ma non era un conversatore professionista.

Quello che mi colpì quasi subito fu il suo rispetto per la vita. Qualsiasi vita. Dal microbo all'elefante. Lo vidi sobbalzare quando Arduino scacciò garbatamente un insetto che si era avvicinato al suo sopracciglio destro, quasi volesse fermare il gesto per evitare che l'insetto potesse aver danno.

E così, giorno dopo giorno, martedì giovedì ed a volte sabato, P. frequentò il Dojo con dedizione e (a parere del Maestro) successo. Cercai di attaccar bottone in tutti i modi (proprio io, estroverso come una lattina) e ad ogni affondo, ogni offerta, ogni riferimento, ogni tentativo di dialogo lui rispondeva con una parata - garbata - ed un diniego di continuare la conversazione. Man mano che il tempo passava iniziavo a maturare delle idee strane. Sembrava un personaggio al di fuori del contesto che siamo comunemente chiamati a valutare ogni giorno, e fu naturale per me metterlo sotto osservazione.

Dopo cinque mesi di appostamenti degni del miglior Holmes (Sherlock, non John) riuscii a vederlo profondamente turbato in tre occasioni:

  • dopo una battutaccia da osteria di Simone verso i gusti sessuali dell'audience, e la pronunzia orfica dell'epiteto "Siete proprio di legno".
  • dopo il rumoroso passaggio di un circo nella zona del Dojo, con conseguente attacchinaggio manifesti dello stesso nella porta esterna della palestra.
  • dopo l'abbattimento di un albero malato nel giardinetto antistante il Dojo, in genere frequentato da bipedi di varia natura e spettro sociale.
Il mio cervello iniziò a mulinare vorticosamente (succede poche volte l'anno) cercando la correlazione tra gli eventi e la loro collocazione nell'affare P
L'elemento decisivo della mia investigazione si manifestò in tarda primavera. Nel rito della spoliazione ante riscaldamento, P. spostò la sua borsa appena un millimetro oltre il consentito, inclinandola leggermente e facendo fuoriuscire una busta dall'aspetto molto antico, da cui uscì una vecchissima foto che svolazzò fino ai miei piedi, mancando miracolosamente la fanghiglia del pavimento dello spogliatoio. Riuscii a sbirciare la foto, un vecchio ritratto in bianco e nero, appena prima del velocissimo recupero da parte di P. della preziosità perduta. Era una signora del secolo scorso, sulla cinquantina, bellissima, con un vestito strano. Sulla foto, una dedica in bella calligrafia, che mi fece raggelare.

Passai il resto dell'allenamento in trance, svegliato solo dalle urla del Maestro che cercava inutilmente di portarmi al passo degli altri. 

Io sapevo che P. sapeva che io sapevo. La mia vita divenne funzione dell'attesa del prossimo allenamento, che puntualmente arrivò.  Mi presentai con un anticipo enorme e con un cuore piccolo piccolo, aspettando la comparsa di P. e del suo mistero. P. arrivò puntuale come le tasse di Maggio, entrando nel Dojo con aria tranquilla.
Mi avvicinai, cercando di dissimulare la mia terrorizzata impazienza.
P. mi guardò. Non avevo mai visto quegli occhi azzurri così profondi.
"Tu sei... Pinocchio".
P. si produsse nell'unico, vero sorriso mai ho visto fare ad una persona. 
Dopo quell'allenamento non lo vidi più, ma il suo sorriso è ancora dentro di me.

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