Wednesday, March 31, 2010

Folklore IV

Il Dojo ha un'anima, che è l'essenza stessa della disciplina che frequentiamo a giorni pari.
Non di solo pane si vive, e quindi l'anima va nutrita con frequenza, passione, credibilità, voglia di fare, rispetto, ed altre qualità che le Anzianità del Dojo saranno felici di spiegarVi.
L'anima del Dojo, però ha la sua controparte. Il lato oscuro. E, credetemi, non sono gli avventori con cattive intenzioni o i rubacinte e suppellettili che frequentano (molto) raramente gli spogliatoi: sono gli spiriti che frequentano gli asciugacapelli ed i ganci per accappatoi.

I ganci bastardi
I ganci preposti all'impiccagione degli accappatoi, utilizzabili ante-doccia ed opportunamente posizionati vicino ad ogni cabina della sorpresa (vedi post precedenti), sembrano di materiale solido e durevole.
Niente di più sbagliato.
I ganci (domanda a risposta multipla) sono: a) termoplastici b) repulsori c) dotati di anima voodoo d) semplicemente bastardoni, e si ribellano continuamente al loro istituzionale dovere di tenere lontano da terra l'asciugamano o accappatoio necessario ad evitare bronchiti asmatiche e malattie da raffreddamento dovute ad asciugatura incompleta o impossibile.
Tu appendi l'accappatoio o l'asciugamano al gancio, e oplà, il gancio bastardo la lascia scivolare a terra rendendolo utile come mappina di napoletana memoria o come innominabile e sacrificabile residuo radioattivo.
Guardate bene il gancio, prima di appendere. Se si muove o ride, lasciate l'accappatoio in borsa ed uscite grondanti, meglio asciugarsi dopo che mai.

I phontergeist
Acronimo testé coniato per rappresentare l'unione di un asciugacapelli con un poltergeist, rappresenta la volontà da parte del soffiatore elettrico di accendersi e spegnersi a suo assoluto piacimento. Il phon si accende quando dice lui, e si spegne quando decide lui.
Dopo lunghe ed accurate misurazioni di persone in attesa e tempi di funzionamento medio, sono stato in grado di studiare e stabilire una formula che rappresenta il comportamento corretto dell'asciugacapelli durante una regolare sessione di lavoro (un'ora):

T = 1 / n + (h/10)

dove T è il funzionamento per sessione espresso in secondi, n è il numero di persone in attesa della disponibilità del phon fetentone e h è l'indice di umidità relativa dello spogliatoio del dojo. In pratica, affollamento ed umidità rendono il povero studente Shinseikai soggetto a malanni di stagione anche fuori stagione.
Sto pensando di comprarmi un asciugacapelli nucleare.

Friday, March 26, 2010

Le basi.

I Kihon rappresentano la grammatica del Karate. Non si può scrivere un sonetto, una poesia, un racconto breve, un romanzo, un'opera se non si conoscono perfettamente le regole di base. Così come non è pensabile crescere nella disciplina marziale se i movimenti di base non sono eseguiti correttamente.

Thursday, March 25, 2010

Shinseikai V - Da bimbo a uomo

Dondola bimbo dondola lento
fatti cullare dal caldo e dal vento
tra i rami dell'albero nascondi la testa
lì tra le foglie dov'è la tua cesta

Forti le mani, forti le braccia
salti tra i rami voltando la faccia
il bimbo cresce ed inizia a girare
ed al suo nido deve poi ritornare

Cresce l'età e cresce l'ardire
i Leoni lì sotto si fanno sentire
volando veloce via dal periglio
rimiri le fiere dal vecchio giaciglio

Da uomo vuoi scendere e ricordi la culla
e ascolti i ruggiti che vengon dal nulla
pensi al destino e al bimbo che era
all'uomo straniero in terra straniera

Dai un calcio alla culla che cade giù
quell'uomo sull'albero non tornerà più.

[ dedicato, con passione e rispetto, a mio padre]

Monday, March 22, 2010

Il Match

Eccomi qui di nuovo.
Indosso il karategi lentamente, alla ricerca di un rito che non ho mai praticato. Il karategi profuma ancora di casa, di lontano, di quello che non mi è possibile raggiungere ora. La mia obi stride, ed emana sentore di allenamento, di lotta, di fatica, di traguardi prefissati e mai raggiunti. I rumori intorno mi giungono ovattati, come se avesse nevicato. Sento voci ed urla ed applausi, ma non riesco a riconoscerne l'origine o la lingua. 
La tensione fa male, sento di avere il fiato corto e mi convinco che il match deve ancora iniziare, che il dolore e la resistenza al dolore verrà dopo, e che devo utilizzare la tensione, e non subirla. Utilizzarla per concentrarmi e non per annegare nell'ansia.
I tentativi di svuotare la mente stimolano - evidentemente - gli emisferi cerebrali a sfogliare velocemente le diapositive dei ricordi, degli affetti, delle esperienze, come carte distribuite su un tavolo verde a cui non siede nessun giocatore.
Qualcuno mi dice che è ora di iniziare.
Lo seguo in un lungo corridoio che è leggermente più alto me, buio, dove le ombre dei miei accompagnatori sembrano un film in bianco e nero.
Esco alla luce dei riflettori che feriscono i miei occhi, ed anche se abbacinato intravedo le braccia delle persone che si muovono, e non sento alcun rumore. Dal bianco accecante le forme iniziano ad avere un senso: il ring, gli addetti ai lavori, i giudici, l'audience, l'arbitro che ha una faccia dura come il travertino, ma continuo a non sentire i suoni.
Mi indicano il mio angolo, la mia casa del dolore, seguito dai miei accompagnatori con il volto sfocato. Le figure mi parlano, io non capisco quello che dicono, ma annuisco e non so perché. Mi fanno avvicinare al centro del ring, vedo il mio avversario e l'arbitro. L'arbitro ha un volto ed un vestito, l'avversario no. Non è invisibile, e non è completamente visibile. L'arbitro ci rimanda ai nostri angoli.
Ding.
Il suono della campana, invece, riesco a percepirlo correttamente. E' ora dell'inizio. Mi avvicino, il match ha inizio. 
L'avversario scivola lateralmente e cambia guardia due volte, da hidari a migi a hidari, repentino. Io finto una parata con il sune. Non contento, finto un mawashi-geri gedan, e la seconda finta, inutile, fa partire l'avversario con un altro mawashi-geri gedan, che paro, e con un mae-geri a piena potenza che non riesco ad intercettare. Il colpo arriva come un maglio, la forza dell'intero corpo sullo stomaco mi toglie il respiro e lucidità, ed abbasso la guardia di qualche centimetro: l'avversario fa uno switch e mi sfiora la tempia sinistra con un calcio circolare jodan. Non capisco bene se sono riuscito a schivarlo oppure se sia un avvertimento dell'avversario, ma le ripetizioni di tsuki al petto mi ricordano che forse la prima possibilità a cui penso è sempre quella che conta. Un sabaki riesce a tirarmi fuori dalla combinazione letale che l'avversario consuma in velocità mentre il dolore al petto fiacca le ultime energie di questo round.
Ding.
Ding.
Ding.
Ding.
Riapro gli occhi, mi accorgo che il match era solo nella mia testa. Il dolore era immaginario. Il dolore era un sogno, il match era un sogno, tutto era un sogno. L'unica realtà è la campanella della sveglia. Sono solo le 6 e 03 di una mattina di primavera che tarda ad arrivare, grigia ed umida, e come tutti i sogni che iniziano e finiscono quasi immediatamente prima del risveglio, questo può essere ricordato. Non saprò mai chi fosse l'avversario, o il risultato del match. Non saprò mai cosa volessero dire queste immagini proiettate nella mente in una mattina che non prevedeva un match. Ed ecco che, semplicemente, l'intuizione si palesa: sognato, metaforico o vissuto, il match sarà sempre una prova da affrontare, e senza le mani sui fianchi.

Thursday, March 18, 2010

Nonno Spaziotempo

Un tizio vestito in nero, con il cappello nero, cappotto nero, pantaloni neri, scarpe nere, occhiali neri, il volto coperto da una sciarpa nera, si avvicina a me e in maniera furtiva cerca di donarmi una scatola, nera. La scatola ha un aspetto innocuo e non aggressivo. E' bella e  strana, e sembra non entrare in sintonia con quello che mi circonda.

Chiedo cos'è. Mi viene risposto che è una scatola magica. Posso usarla solo tre volte. Faccio una battuta stupida sulla lampada del Dottor Aladino e l'uomo in nero muove leggermente la testa da sinistra a destra, paziente come se avesse previsto la battuta e non potesse evitarla.

Magica in che senso, dico. L'uomo in nero scandisce le parole come se parlasse con un tredicenne brufoloso, e mi dice che posso viaggiare nel tempo per tre volte, e per tre volte potrò tornare avanti.

A quali condizioni, comunico al darkettone. Il liquiriziato mi dice che avrò solo tre occasioni, che devo sapere quando andare e che sono in un giro da cui non riuscirò ad uscire.

La mia fronte si imperla di sudore in 3.5 millisecondi, e l'uomo color carbone non c'è più.
Torno a casa.
Prendo un foglio di carta, una matita preistorica ed inizio a scrivere:

1) Tornare indietro per far avverare una cosa buona: iniziare il Karate a sei anni anzichè a quarantasei.
2) Tornare indietro per evitare che una cosa cattiva accada: evitare a Mattia di rompersi il gomito facendogli studiare la registrazione video dell'incontro che lo vedrà protagonista.

Mi blocco sul terzo punto.
Mi addormento. Mi risveglio il giorno dopo, con i capelli fulminati, indice di notte insonne. Le borse sotto gli occhi sono griffate. Non riesco a decidermi.
Poi, l'idea, il fulmine a ciel sereno: donare la scatola magica a qualcun'altro.
Lo farò, è sicuro. Esco in strada per cercare vestiti adeguati allo scopo.
Ed ho anche capito chi era lo spilungone nero.

Wednesday, March 3, 2010

Folklore III


E' Marzo, che a Roma corrisponde ad una ipotetica stagione di mezzo. 
Il Marzo pazzerello delle poesie di terza elementare, ahimè, non esiste più. Oggi esiste il Marzo in SUV che va contromano con il dito medio alzato e la certezza di farla franca dichiarando 12.000 Euro lordi annui, continuando ad andare in vacanza a Santo Domingo (non si mai, potrebbe rimanerci se la magistratura utilizzasse l'effetto speciale inventato nei laboratori di Stan Winston, il fumus persecutionis). 

Chi normalmente frequenta il Dojo, normalmente tra le 19.30 e le 21.30 dei giorni normalmente pari, è invece convinto che alcuni valori rimangono immobili ed immancabilmente immarcescibili. Il Dojo è una certezza, un assioma, un organismo che continua a pulsare anche se il suo creatore ed ispiratore viene spedito in terra umidamente albionica. 
Il Dojo è un essere fatto di artigli, denti e angoli vivi che ospiti e che inizia a farti male quando sei lontano, e quando cerca ti riportarti vicino.
Il Dojo è lì, e non ammette deroghe. Il Dojo continua anche (e soprattutto) quando non ci sei, e quando ritorni lo trovi 35 metri più avanti, perché nel frattempo lui ha proseguito, tu no. 

Dopo aver esplorato gli armadietti, il cesto degli orrori, le cabine della sorpresa e gli spogliatoi, la nostra attenzione viene catalizzata da due elementi riconducibili al tempo: il maledetto timer e le fasi dell'allenamento.

Il maledetto timer

Il timer del Dojo è un monolito di massa e peso infiniti candidamente appoggiato su un armadio punico ad uso di ripostiglio. Il timer è parente stretto degli armadietti a salto quantico (vedi uno dei post precedenti, oppure cerca armadietti a salto quantico su Google), e come tale ha un atteggiamento non riconducibile alla riproducibilità scientifica. 

Il fetentone, infatti, dilata i tempi di kumite (in maniera esponenziale se prevede la partecipazione attiva del Sensei) e riduce i tempi di recupero a pochi, miserabili, insufficienti  istanti che fuggono come l'umana giovinezza per lasciar posto ad altra sana e perspirante attività fisica. 

Tradotto in Casalottese, le botte durano tanto e il riposo dura poco. Non si hanno prove certe di un dolo, ma tutti sono sicuri che il timer se la rida ed acceleri (o rallenti) l'unica lancetta disponibile a suo esclusivo godimento. 

Le fasi dell'allenamento

Quando il tempo degli esami si avvicina, le fasi dell'allenamento assumono lo spessore e l'intensità delle liriche di Ungaretti. E dell'autore ecco alcuni brani di poesie associate a momenti da ricordare:

Arrivo al Dojo
Mi illumino d'immenso

Preparazione e vestizione
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli

Riscaldamento dinamico
E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare

Kihon
E per la luce giusta,
Cadendo solo un'ombra viola
Sopra il giogo meno alto,
La lontananza aperta alla misura.  

Kumite con il Sensei
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

L'essere artigli denti ed angoli vivi mi ricorda che oggi è comunque un giorno Shinseikai, ma domani ci si allena - forse un giorno Shinseikai++ -  ed io non sono mai stato tanto attaccato alla vita :-).

OSU!