Thursday, December 30, 2010

Buoni propositi.

Una breve lista di buoni propositi Shinseikai per il nuovo anno:

- Restare calmi.
- Tenere le orecchie bene aperte.
- Respirare correttamente.
- Non perdere la concentrazione.
- Tenere la guardia alta.
- Adeguare la preparazione atletica.
- Mettere l'Ego ben al di sotto della Passione.

E i vostri?

Tuesday, December 28, 2010

Fratelli.

Prologo.
Erano fratelli. Non nel senso biologico della parola, ma nella dimensione più profonda, non immediatamente percepibile da agenti esterni, non intuibile con l’umano talento del comprendere qualcosa senza le sufficienti informazioni. Erano diversi ed uguali, ed alle volte, in intimità, era possibile vedere l’invisibile legame che li univa, come una corrente d’aria che lambiva i loro volti senza toccarli.

Uno era straidato su un letto d’ospedale, l’altro seduto a fianco. Sorridevano stancamente a turno, come a darsi il cambio in una ciclistica fuga in salita, l’inseguitore e la lepre che giocano a cedere all'altro il proprio ruolo per esser certi di arrivare al traguardo. C’era qualcosa di speciale negli occhi di entrambi, forse un consapevole momento di non ripetibilità. Come la vita. O la vita che se ne va.

Uno stava morendo, l’altro gli era accanto, pensando...

L’incontro.
Giacomo era un ragazzino introverso, pelle e ossa, carnagione chiaropallida, la tendenza a virare lo sguardo verso il basso e l’abitudine di schiarirsi la gola quando doveva dire qualcosa, anche di non importante. I genitori si erano separati l’anno prima, e viveva con la mamma, seguendola nel trasferimento ad un altro capoluogo dove avevano altre abitazioni, altri accenti, altre usanze. Era una strana giornata di autunno: vento tiepido ma atmosfera che lasciava presagire l'arrivo del rigore invernale come imminente. Giacomo si stava avviando al suo primo giorno nella nuova scuola, nella nuova città, nella nuova vita - con l’anno scolastico già iniziato, la città ben avviata, e la vita intorno a lui che correva senza ansimare.

Bussò alla porta semitrasparente della classe, causando un silenzio insopportabile e la magnetizzazione di tutti gli sguardi ostili degli studenti seduti sui banchi. Aspettò l’assenso della professoressa ed entrò piano, cercando di non sprofondare nella vergogna e nel fastidio di essere guardato ortogonalmente da quegli occhi senza colore e senza una curiosità sana. La voce della prof che scandiva il suo nome alla funerea audience era di carta vetrata, a grana grossa, e Giacomo - in quel preciso momento - sperò di scomparire. O almeno di essere ossidoridotto a livello subatomico. L'ossidoriduzione attraverso radioestesia - puntualmente - non si verificò, e Giacomo venne accompagnato dalla voce abrasiva al suo banco. Giacomo sedette, guardò a sinistra, a destra, controllando gli sguardi cinerei che man mano si spegnevano, e ricominciò a respirare.

"Ciao. Sono Alfredo Quattordici"

Non aveva notato la presenza al suo banco. Non aveva notato che i banchi erano per due persone. Girò la testa verso la voce, ed ammutolì, lasciando le labbra schiuse per diversi millimetri. Era un ragazzino come lui, ma era... diverso. Aveva la pelle scura, con qualche riflesso metallico, un vestito strano, due occhi profondi e grandi. Non aveva capelli. E sorrideva.
Oh capperi.
Giacomo sapeva benissimo cos'era un androide, anche se non ne aveva mai visto uno. Finora.
Giacomo cercò di ricambiare il sorriso alla meglio. Era stato il primo sorriso che aveva ricevuto da quando si era trasferito nel nuovo capoluogo, ed il sorriso di ritorno che aveva prodotto non si era rivelato un gran che. Il microdubbio lo rose scatenando la reazione incontrollata della mano nella tasca alla ricerca di qualcosa, un pegno da lasciare al ragazzino che l'aveva salutato per primo, vista la sua cronica manchevolezza con il parlato. Estrasse dalla tasca una pallina di acciaio, di quelle per costruire le forme geometriche. Pensò che come pegno iniziale di una amicizia robotica fosse veramente un disastro di irriverenza, ma in tasca aveva null'altro e non poteva far passare il momento. Alzò le sopracciglia due volte, e passò la pallina nelle mani - perfette - dell'altro, che prima lo guardò grato e incuriosito, e poi posizionò lo sguardo sulla pallina come se fosse il Koh-I-Noor. Il resto della lezione di quel giorno, per i due, passò senza importanza, tra le occhiatacce dei lugubri che lampeggiavano ad intermittenza.


L'amicizia.
Alfredo Quattordici venne a sapere parecchie cose su Giacomo e sul posto da dove veniva. Il padre di Giacomo era un Ingegnere che costruiva palazzi, e la mamma invece una Biomeccanica. Quando i suoi tornavano dal lavoro, la sera, litigavano fino all'ora di andare a letto. O almeno, Giacomo li sentiva in blatero fino al tocco di Morfeo. La situazione si trascinò per diverso tempo, e forzò la naturale pigrizia di Giacomo a cercare una ragione per rimanere, almeno qualche ora, fuori di casa quando gli strombazzanti rientravano dalle loro occupazioni. E questa ragione era ancora da trovare, ora che il papà e la mamma avevano deciso di percorrere due strade separate.

Anche Giacomo imparò parecchie cose da Alfredo Quattordici. La sua pelle era un composto di titanio, ed il numero dopo il nome era una convenzione imposta dalla legge. Ogni dodici mesi doveva rientrare - per una settimana - in un Centro Specializzato per il Cambiamento, dove veniva applicata una procedura che adeguava il suo corpo all'età anagrafica. Non mangiava, ma poteva apprendere. Era guardato malissimo dai suoi coetanei e generalmente osteggiato quasi apertamente (i movimenti per i diritti dei Pensanti sarebbero pienamente maturati solo cinquant'anni dopo), ma nessuno osava toccarlo per paura della sua forza e resistenza fisica. Era stato adottato dai suoi genitori perché non potevano avere figli, e legalmente inserito nella nuova famiglia tramite regolare richiesta all'Anonima Androidi.

Erano una strana coppia di ragazzini, che passavano molto tempo insieme, che alle volte non parlavano, e che venivano costantemente sbeffeggiati dalla comunità studentesca con vari epiteti, da 'Carne con Scatola' a 'gli RH Negativo'.  Alfredo Quattordici ne soffriva un po', ma non lo faceva vedere. Giacomo ne soffriva un po', ma non riusciva a nasconderlo. Spesso li vedevi passeggiare sulla camminata del laghetto vicino al centro residenziale, giocando a far rimbalzare i sassi come ranocchie o sdraiati sull'erba a lasciar passare il tempo raccontando sogni e speranze. Altre volte prendevano la Sotterranea e si recavano alla Vecchia Città, anche in zone non propriamente tranquille, Giacomo poteva contare sulla possanza fisica di Alfredo Quattordici, e Alfredo Quattordici sulla silente sagacia di Giacomo.

E proprio durante una di queste gite clandestine scoprirono un parco ben curato ed una palestra piccola, non pulitissima e tappezzata di vecchie fotografie, abitata da un Maestro, vecchio campione di arti marziali, che sarebbero diventati i luoghi dove trascorrere il tempo una volta finite le lezioni.

L'adolescenza.
Il tempo scorreva al ritmo dei Cambiamenti di Alfredo Quattordici ed alle alterazioni tricologiche di Giacomo. Alfredo Quattordici era molto bravo nella coordinazione e nella riproduzione dei movimenti del corpo, che cercava di insegnare a Giacomo. Giacomo era portato per la letteratura e le scienze, e si rendeva disponibile alle ripetizioni per Alfredo Quattordici. Avevano stretto un patto: l'uno doveva aiutare l'altro a superare le proprie difficoltà e debolezze nell'area in cui l'altro dimostrava eccellenza e talento.

Al parco, nelle giornate di sole, Alfredo Quattordici seguiva Giacomo nei suoi voli di fantasia e nei suoi giochi di rime.
"Cosa devo scrivere?" chiedeva Alfredo Quattordici.
"Non pensare a cosa devi scrivere, pensa a cosa vuoi scrivere." ribatteva Giacomo. 
"Vorrei scrivere il silenzio, e la natura.".
"Ottimo. Fai danzare le parole, cercale fino a che non si muovono come un corpo di ballo.".
"Vediamo... Inseguo il silenzio e lui fugge via".
"Bene. Bella frase. Cosa ti viene in mente per accompagnarla?"
"Devo fare la rima con via..."
"Daaai. Non devi farlo innaturalmente. Se la rima viene, lasciala, ma se la cerchi non la troverai.".
"Tra gli alberi corre, nel vento si perde".
"Buona, ma puoi migliorarla.".
"Come?".
"Cerca di descrivere meno, e di sentire di più. Cosa vuoi dire veramente?".
"Che cammino tra gli alberi e il silenzio mi fa paura, ed allo stesso tempo... è bello.".
"Ci sei vicino.".
"Inseguo il silenzio, si perde nel vento
 Il tempo tra gli alberi, cammina lento"
Giacomo sorrise. "Hai visto. Hai scritto una rima. Come ti è venuta?"
"Non lo so.".
"Ecco perchè l'hai scritta. E' la rima che ha cercato te, e non viceversa.".
Alfredo Quattordici sorrise, ed abbracciò Giacomo con lo sguardo.

Nella palestra del vecchio campione, quando pioveva, Giacomo seguiva Alfredo Quattordici nelle sue perfette rappresentazioni dei movimenti che aveva copiato guardando il vecchio maestro nei suoi allenamenti pomeridiani.  Giacomo guardava Alfredo Quattordici rappresentare le figure con la stessa aria assorta e rapita che Alfredo Quattordici assumeva quando Giacomo cantava i suoi versi. Alfredo Quattordici cantava la poesia del corpo con naturalezza, senza balbettii o indecisioni.
Alfredo Quattordici e Giacomo erano appaiati: uno proponeva una serie di movimenti di braccia, gambe e corpo in sequenza, e l'altro cercava di replicarli.
Alfredo Quattordici annunciò la sequenza, che eseguì subito dopo. 
"Guardia sinistra, Calcio circolare basso sinistro, Pugno sinistro, Gancio Destro, Piccolo Montante sinistro.".
Giacomo riprodusse la sequenza, aspettando le indicazioni di Alfredo Quattordici.
Alfredo Quattordici, con voce bassa, iniziò il commento.
"Hai sbagliato la posizione di guardia, le gambe devono essere leggermente piegate - come molle pronte a scattare. Il calcio circolare non era abbastanza... circolare, devi ruotare prima il piede e la gamba opposta e poi, con tutto il corpo, girare l'altra gamba cercando l'impatto in una zona che è circa dieci centimetri sotto il ginocchio. Hai eseguito le tecniche di braccia senza movimenti di anca e spalla, mancando il bersaglio e, nel caso del Piccolo Montante sinistro, la zona che hai colpito era molto più alta, quindi la tecnica si è dimostrata inefficace e...".
Alfredo Quattordici si interruppe, era entrato il Maestro.
Il Maestro si avvicinò quasi levitando sul pavimento, guardò prima Giacomo, poi Alfredo Quattordici, e tra il bonario ed l'ironico disse "E' arrivato il Maestro, il Maestro di Shinseikai.". L'altezza (percepita) dei due ragazzi raggiunse il livello del tatami, salutarono mogi il Maestro e si misero a disposizione nel lato in cui gli studenti usualmente studiavano forme e movimenti. Tutti e due credettero che la parola pronunciata dal maestro fosse il suo nome, e tra loro - da quale momento - lo chiamarono così.

La vita amorosa di Giacomo non era costellata di successi. Alfredo Quattordici aveva chiaramente percepito l'interesse di Giacomo per una brunetta vestita di scuro, che evitava accuratamente ogni possibile occhiata, dedicandosi invece a ricevere e rimandare guardatine a fusti delle classi superiori. Altrettanto chiaramente aveva percepito un'adorazione sfrenata, nei confronti di Giacomo, da parte di una ragazzina meno appariscente, con occhiali al seguito, che Giacomo ignorava (o meglio, faceva finta di ignorare). Questa storia dell'amore e delle infatuazioni monodirezionali occupò i cicli macchina di Alfredo Quattordici per molto tempo, senza soddisfare la sua curiosità o arrivare ad una plausibile spiegazione.

La vita sociale di Alfredo Quattordici non era costellata di successi. Giacomo percepiva ostilità e pregiudizio nei confronti di Alfredo Quattordici, che gli rimanevano attaccati come una visibile aura anche quando era solo. Gli androidi venivano visti - in essenza - come un male necessario, una rappresentazione dell'uomo quando l'uomo non era disponibile. Un sostituto. Giacomo pensava sinceramente che Alfredo Quattordici avesse qualità e sensibilità non comuni anche nel genere organico, e che la loro differenza strutturale non avrebbe mai messo a repentaglio una vera amicizia. Più Alfredo Quattordici veniva sottoposto ad ostracismo, più il legame con lui acquistava forza e resistenza all'altrui imbecillità.

L'età adulta.
Giacomo diventò un Biomeccanico, come sua madre, e data l'enorme richiesta di personale specializzato trovò lavoro quasi immediatamente in una multinazionale che costruiva parti di ricambio e software per uomini in età avanzata, lavorando nel reparto di ricerca e sviluppo.
Alfredo Quattordici diventò personal trainer, e riuscì ad agganciare il filone delle attrici famose in OloTV, che consideravano gli androidi come l'unione - ideale - tra una guardia del corpo e un istruttore con un talento speciale per potenziare corpo e psiche.
Non riuscivano ad incontrarsi tutti i giorni, anche se lavoravano nella stessa città, ma avevano mantenuto la vecchia abitudine di incontrarsi al parco per comporre sonetti (se splendeva il sole) o nella vecchia, polverosa, indimenticabile e romantica palestra a far flessioni e sentire i suggerimenti del Maestro, sempre arzillo ma accompagnato da un bastone di legno non lavorato su cui poggiava i combattimenti vissuti ed accumulati durante gli anni.
Intorno al trentunesimo Cambiamento di Alfredo Quattordici, in un pomeriggio di sole nel parco, Giacomo iniziò ad inventare e declamare un sonetto che parlava di un incontro casuale, di batticuore ed inappetenza, di fiori regalati e voglia di urlare felicità al mondo. Alfredo Quattordici non aveva mai provato sensazioni simili, ma aveva capito che Giacomo era innamorato. Si fermò, i grandi occhi aperti che fissavano lo spazio avanti a sé, ed iniziò a sussultare impercettibilmente. Giacomo, a sua volta, capì che Alfredo Quattordici stava piangendo. Di gioia.
Un paio di Cambiamenti dopo Giacomo e la compagna ebbero la fortuna di avere un figlio, maschio. Giacomo non ebbe il minimo dubbio sul nome: sarebbe stato quello del suo Amico della vita, senza il numero che continuava a rinchiudere suo Fratello nella schiera dei quasi uomini. Il piccolo Alfredo non divenne solo la luce di Giacomo e signora, ma anche quella dell'androide che figli non poteva avere.
Gli incontri al parco e nella piccola palestra continuarono, in tre.

Tempo dopo, durante un'estate particolarmente calda, Alfredo Quattordici iniziò a manifestare qualche anomalia. Non riusciva ad esprimersi correttamente, soffriva di balbuzie, rimaneva fermo e silente più della sua abituale ed inorganica flemma.
"Dovresti farti visitare.".
"D-d-da-a chi? Il mio progetto è sta-a-a-a-to abbandonato...." lunga pausa " dieci anni fà.".
"Proverò a vedere in azienda, facciamo tanto per gli uomini attraverso componenti robotiche, potremmo aver fatto qualcosa per gli androidi attraverso parti organiche." cercò di farsi coraggio Giacomo, ma la sua voce era traballante, senza cognizione nè convinzione, sospettando qualcosa di serio.

I sospetti di Giacomo furono confermati da uno specialista:  Alfredo Quattordici aveva raggiunto uno stadio in cui ogni Cambiamento poteva essere fatale. Il suo involucro non poteva più essere cambiato, ed allo stesso tempo l'involucro stava causando la degradazione o la perdita delle funzionalità più elevate. Le sue investigazioni in azienda diedero esito negativo: tutti i capitali per la ricerca e sviluppo venivano indirizzati per la sostituzione di parti organiche con componenti biomeccaniche, e non viceversa.
Alfredo Quattordici stava morendo.

Epilogo.
... a tutti quegli anni passati insieme, e al significato della parola fratello.
Giacomo sedeva, e non riusciva a smettere di sorridere, e di piangere. Non c'era bisogno di questo, per scoprire cos'è un fratello. Non c'è bisogno di perderlo, per capire affetto, amore, rispetto. Avrebbe voluto esser lui, un organico, su quel letto, al suo posto.
Alfredo Quattordici schiuse le labbra, a fatica.
"Vivi ... ama per me, fratello".
Cercò la mano di Giacomo, e gli passò l'oggetto che aveva custodito, con robotica cura, per tutto l'arco della sua vita: una piccola sfera d'acciaio, il pegno dell'amicizia che neanche la morte riesce a scalfire.

 [Un sentito grazie ad Isaac e Cyril per l'ispirazione :-)]

Friday, December 17, 2010

La Lista Nera.

Grazie alle mie presunte o vere capabilities di hacker, sono riuscito ad identificare l'indirizzo IP dell'iPhone del Sensei, utilizzare nmap per effettuare lo scanning di tutte le porte TCP e UDP non bloccate, rilevare la presenza di un microserver SSH installato tramite JailBreak sul telefono e quindi connettermi - da remoto - cercando di forzare la password attraverso un brute-force attack. Con soli 28 minuti di tentativi, giusto il tempo per un brunch, ho effettuato il fetch della password e sono riuscito ad accedere alla famosa blacklist del Sensei, di cui faccio il publishing di uno snippet in real time, e che conto di rivendere a giornali specializzati per raccogliere fondi con cui conto di comprare un manuale per scrivere in italiano non inquinato dall'informatica o acronimi e una dentiera post-rappresaglia-Sensei.

  • Gabba si lamenta del suo Sensei.
  • Gabba non regala uno o più iPad al suo Sensei.
  • Gabba fa gesti strani ed equivoci con la mano.
  • Luca scappa via per giocare a calcetto invece di partecipare al turno non-agonisti.
  • Gabba si addormenta e russa.
  • Lorenzo si rifiuta di prendere la dose di bromuro.
  • Gabba non regala uno o più iPad al suo Sensei.
  • Tullio non sa fare la doppia capriola carpiata come se fosse Antani.
  • Gabba parla troppo o non parla affatto.
  • Gabba scambia il Gedan con il Jodan e viceversa.
  • Gabba ha l'iPhone 4.
  • Antonio mangia dolci di nascosto e in contumacia.
  • Gabba non regala uno o più iPad al suo Sensei (Ma perchè tre volte, chiedo. Lascia fare, mi risponde.)

Il resto sarà pubblicato a puntate su 'Picchiare Oggi' in edizione limitata.  Adesso esco, vado a fare una visita ad un venditore di urne cinerarie che mi potrebbe far comodo, fanno degli sconti speciali agli spilungoni...

Wednesday, December 15, 2010

Un racconto Shinseikai: i tre cercatori.

A volte si incontrano storie così intense che sembrano scritte per romanzi stampati su carta di second'ordine. E se anche il genere - commedia, tragedia, satira - viene dimenticato, e il finale lasciato nello scantinato dei ricordi - l'assassino è il maggiordomo - qualcosa comunque ci rimane dentro.
Non sappiamo bene cos'è, non sappiamo descriverlo adeguatamente, ma ci da fastidio quel sassolino nel cuore che lascia effetti collaterali strani e inaspettati, come gli occhi umidi, una discreta difficoltà nell'esprimersi correttamente e un tumulto interiore a prova di mille camomille.
Questa è una di quelle storie. Ve la racconto così come l'hanno raccontata a me, e la persona che me l'ha raccontata non è un tipo affidabile, per cui prendere o lasciare.
E' ambientata in un paese lontano, dove non c'è una sola lingua ma tanti idiomi e tante maniere per dire quello che, nel mio paese, si dice con una sola parola. E, senza ulteriore indugio, eccola qui.


Qualche tempo fa, in un posto in capo al mondo, ho conosciuto un gruppo di Cercatori, che aveva lo scopo di snasare, trovare ed impossessarsi di qualcosa che non era possibile trovare nel proprio paese. I Cercatori erano in tanti: io me ne ricordo tre.
Uno era soprannominato il Maestro, praticava una disciplina dura, era sempre in movimento e alle volte lo vedevi correre. Dico, non riuscivi proprio a vederlo. Era una macchia sfocata, subito sparita, ma lo sapevi che era lui.
Uno era soprannominato il Profondo, sapeva scendere nelle profondità della terra, dove c'è solo calore, lava e morte, e riusciva sempre a cavarsela. Aveva due mani come due badili, e le usava per andare giù e per tornare su.
Uno era soprannominato il Cantore, sapeva descrivere le cose con liriche e poesie, a giocava sempre a far le rime. Di quello che scriveva uno teneva e dieci buttava. E se gli chiedevi "Perchè butti quel che scrivi" rispondeva "Perché è già scritto".
Me li ricordo bene, erano tre spilungoni, ma diversi. Quelle rare volte che entravano in locanda insieme gli inservienti facevano segni strani riguardo la loro altezza.
E proprio una sera d'inverno li incontrai in una taverna, mangiavano una zuppa calda.
Chiesi di accomodarmi, e mi offrirono il loro piatto. Inchinai il capo per ringraziare, e dopo aver finito la mia razione chiesi loro cosa cercavano.
Il Maestro disse "Cerco il mio limite. Cerco di capire quello che valgo. Cerco di migliorarmi e nuove maniere per arricchire la mia disciplina ed essere un Maestro migliore".
Il Profondo disse "Cerco una strada nuova. So scendere all'inferno e risalire, e anche se rischio la vita ogni volta vorrei capire se esistono altre strade da percorrere".
Il Cantore disse "Cerco l'ispirazione per scrivere qualcosa che posso rileggere. Cerco di scrivere qualcosa che possa ispirare anche gli altri".
Guardammo il fuoco nel camino, per un po', e poi ci si salutò per coricarci.
Non li vidi più per diverso tempo.
Tornai alla taverna molte volte, chiesi di loro, ma non li trovai.
Passò la stagione del freddo e delle piogge, ed arrivò quella dei fiori. E, una sera, trovai il Maestro, il Profondo ed il Cantore allo stesso tavolo, ma con il camino spento.
Erano proprio loro, ma avevano un'altra aria. Erano diversi. Chiesi se potevo sedere al loro tavolo, e feci portare tre piatti in tavola per sdebitarmi della loro gentilezza invernale, sorrisero ed accettarono l'invito.
Quando ebbero finito di mangiare si confidarono.
Il Maestro, a bassa voce, disse "Ho cercato e trovato il mio limite, l'ho superato tra mille e trenta avversari, difficoltà e dolori, e ho capito qual è il mio prossimo ostacolo da superare: un nuovo limite che scruta il vecchio limite come se fosse un infante".
Il Profondo, guardando la finestra, disse "Ho trovato una strada nuova, e va verso l'alto, non dove c'è roccia e lava e morte, ma verso le cime della montagna, tra nuvole e acqua, e sarà ancora più difficile da percorrere".
Il Cantore rimase in silenzio. Prese un foglio di carta, ed iniziò a scrivere: "Ho accompagnato il Maestro ed il Profondo nelle loro avventure, cercando l'ispirazione. Ho trovato storie, gioie, lacrime, persone. Ho trovato così tante cose che le parole non mi sembrano abbastanza."
Li vidi uscire, uno ad uno, con espressioni differenti, lunghi come tronchi d'albero, e mi domandai cosa chieder loro quando li avrei rivisti.


Dicevo, quello che mi ha raccontato questa storia non è uno affidabile. E' uno che gira per taverne. Ma la storia sembra credibile. Ho chiesto ad un mio amico, un bravissimo disegnatore, di tenere gli occhi aperti, tante volte li trovasse insieme da qualche parte.
Se li troverà, mi farà un disegno, così avrò la prova che i Cercatori esistono e che stanno inseguendo qualcosa che non è solo la loro ombra.


Saturday, December 11, 2010

Made in Japan: Strange Days

Anche i menestrelli e i contastorie alle volte si inceppano come un vinile troppo ascoltato. La quantità di informazioni e sensazioni accumulata in pochi giorni inizia a stimolare qualche effetto collaterale, sono pieno di idee e non ho il talento e lo stile per vergarle su carta (si fa per dire), e il lessico, i trucchi ed i modi di scrivere che mi sono stati insegnati fino ad oggi non sono abbastanza. Sono giorni strani.

È dicembre pieno e sembra primavera, la vista di un Gaijin (uno straniero) mi provoca un negativo sobbalzo interiore, penso a togliermi le scarpe prima di entrare nella microcamera, sulla scala mobile mi posiziono automaticamente sulla sinistra, sono circondato da persone che si mettono in fila e non cercano di passare avanti, i pasti caldi e buoni costano meno di dieci euro, tecnicamente compio 47 rivoluzioni solari, sono a Tokyo, in Giappone, ho visto un maestro ed un amico dimostrare il coraggio di essere uomo, ho conosciuto un altro amico che è stato il mio Virgilio, invento storie immaginifiche che traslate in scrittura sembrano panni non lavati, rimango senza fiato nei giardini e nei templi di questo paese, il mio inglese ha raggiunto livelli stradali, impugnare un cucchiaio sembra un gesto goffo, e - non ultimo - mi domando se riuscirò ancora a scrivere qualcosa di sensato nel prossimo futuro.

In questi strani giorni ci sarebbe materiale per mille storie, storie strane e belle. Prima o poi le troverò, quelle dannate parole, ma non ora. C'è un tempo ed un luogo per tutto, ed ora è tempo di viverlo, prima di scriverlo.
Auguri Gabba, sei un tipo fortunato. Hai passato i compleanni precedenti a pensare, passa questo ed eventuali altri a vivere, donare felicità, amare chi è lontano, sorridere di più.

"Cherish your life while you're still around"
:-)


- Posted using BlogPress from my iPad

Location:Tokyo, Japan

Wednesday, December 8, 2010

Made in Japan: Shinseikai e cuore.

Parte I - L'arrivo.

L'aria, nella hall dell'albergo, inizia a diventare elettrica. Il nostro sguardo è fisso sulla porta scorrevole dell'entrata, aspettando l'arrivo di Tanaka Kancho, che si palesa sorridente e pronto per portarci nel luogo dove si insegna la via. I passi verso la stazione di Kyoto sono elastici e silenziosi, e le poche parole di Tanaka Kancho vengono intercettate e tradotte da Lorenzo, il nostro intermediatore con i suoni, i segni ed i sogni di questo mondo così lontano.
Il viaggio in treno sembra interminabile, e man mano che ci allontaniamo da Kyoto il contatto con la realtà sembra essere cambiato, l'esterno è poco illuminato, le scritte in inglese svaniscono, le scritte in Romaji sono tenute al minimo, si parlotta a bassa voce, parte qualche sorriso sovrapposto alla tensione per l'evento che si sta per compiere.
Alla stazione ci accolgono i membri Shinseikai con le loro vetture e sorrisi larghi come meloni giapponesi. Non sembra di essere in trasferta, ma a casa!
Le strade sono buie, non illuminate, e Kyoto sembra essere distante come Arcturus, si scambia qualche parola in macchina, sempre con Lorenzo nei panni di Google Translate, fino all'arrivo in una struttura illuminata.
Si esce dalla notte per entrare nella scuola, nell'evento, nell'emozione.

Parte II - I bambini Shinseikai.

Ci è concesso l'onore di seguire attivamente il turno dei bambini, con il riscaldamento, i Kihon, ed il Kumite. I miei occhi si velano e rimangono umidi nel vedere questi esserini, vestiti con il Karategi, che ci guardano sorpresi e divertiti mentre ripassiamo le basi insieme a loro. In loro vedo le facce dei miei figli e mi commuovo, e spero che non si veda: chissà cosa fanno Melissa e Mirco, e Alex e Lara. Ogni tanto incrocio lo sguardo con qualcuno di loro. I più coraggiosi tengono lo sguardo e sorridono, e il cuore mi si scioglie, e non posso fare a meno di riflettere su quanto due culture siano diverse e quanto i sentimenti possano renderci molto simili.
Arriva il momento del Kumite. Capiamo che i bambini dovranno affrontarci, ci disponiamo larghi sul tatami, e ad un comando di Sensei Iwasaki i bambini scattano per venirci incontro, spesso gareggiando a chi arriva primo per affrontare il Gaijin di turno. Qualcuno sorride, qualcuno ha uno sguardo beffardo, qualcuno è imbronciato: tutti si battono come leoncini, e qualcuno è talmente piccolo che non posso fare a meno di incoraggiarlo (Ganbatte!) mentre tira Tsuki e Geri con una frequenza e potenza impressionante per la loro età. La lezione dei teneri bimbi giapponesi volge al termine con la concentrazione, lo stretching ed il saluto finale, che mi regala un'emozione da raccontare quando lo spazio ed il tempo saranno propizi.

Parte III - La prova.

La prova di Filippo parte piano, ma acquista subito il ritmo e la potenza di un esame duro, e speciale. Le basi (i Kihon), le tecniche ai Pao (i colpitori) si susseguono in maniera impressionante, lasciando pochissimo spazio a distrazioni o a pericolosi cali di concentrazione. Tutta l'attenzione dei giudici, ed in particolare del giudice Quarto Dan Shinseikai, è rivolta a Filippo. Cerco di guardare e di interpretare le movenze e le espressioni facciali dell'esaminatore, con scarsi risultati. Il Glaciale non fa una grinza, ma riesco a scorgere tantissimi cenni con il capo - dall'alto verso il basso - che nel linguaggio dei segni comune, valido per fortuna anche in Giappone, equivale all'approvazione. Dopo l'equivalente di due lezioni Shinseikai (e chi frequenta il Dojo sa perfettamente qual è l'impegno richiesto) viene il turno dei Sabaki, gli spostamenti laterali utilizzati per difesa ed attacco. Filippo sceglie il suo partner (guarda caso, il Sensei Iwasaki), ed illustra al Glaciale diverse tecniche che ammutoliscono tutti gli studenti, e non solo loro.
Il Glaciale stavolta annuisce palesemente, e non l'ho solo intuito. L'esame sembra interminabile, ed il meglio deve ancora venire.
È il turno dei Kata (le forme), movimenti belli, ipnotici, mortali. Il Dojo è silenzioso, riempito dai suoni delle forme ed il fruscio del Karategi, a volte morbido, a volte teso. I Kata lasciano posto alla prova dei trenta Kumite, trenta combattimenti senza interruzioni, trenta ostacoli che durano un minuto e mezzo che durante l'esecuzione - credetemi - sono molto, molto più lunghi.
I combattimenti si susseguono ed il tempo inizia ad allungarsi, e sembra non finire mai. Molti degli avversari vengono messi al tappeto, si rialzano, anche a fatica, e continuano a combattere: non è concessa nessuna scorciatoia, nessuna via breve, c'è solo fatica, sudore, coraggio, e soprattutto lo spirito giusto.
Man mano tutti gli studenti, e anche gli avversari, iniziano con gli occhi (noi italiani anche con la voce) ad incoraggiare Filippo per affrontare avversari che non indietreggiano, non si tirano indietro, combattono come un vero Samurai sa fare. "GANBATTE, FILIPPO" urlo, non ti arrendere, la strada è ancora lunga.
Il Glaciale scrive sulla lavagna segni provenienti da Marte, ed io ho perso il conto, non riesco a volgere gli occhi dal tatami, come mesmerizzato.
Gli ultimi Kumite sono eseguiti con le cinture nere, la prova - da dura - diventa quasi impossibile.
Cosa ci porta a superare i nostri limiti? Lo spirito giusto. Il ricordo di persone care. Il ricordo di chi non c'è più. Il coraggio. L'aiuto di tutti gli studenti del Dojo. La forza di combattere per chi non può farlo. L'immagine dei propri cari. La determinazione.
Il trentesimo squillo del timer ci trova in lacrime, le nostre e quelle del nostro Sensei. Non ho più paura di commuovermi. Non ho più paura.
Il Dojo diventa lacrime, applausi, urla. Il Dojo diventa festa.

Parte IV - La festa.

Il Dojo si è trasformato. Da concentrazione, ad azione, a festa. I volti sono sorridenti, Filippo è un Terzo Dan. Mi si avvicinano tutti salutando, mi parlano in Giapponese, io non capisco ma sorrido - sinceramente - e ringrazio. È tempo delle foto di rito. Mi viene concesso l'onore di intrufolarmi nelle fotografie scattate da fotocamere e migliaia di cellulari bianchi rosa grigi neri perla fucsia gialli, tutti uguali, che lampeggiano allegramente come fossero fuochi d'artificio, che cercano di immortalare il momento, come se serbarlo fuori dal cuore fosse importante. E forse lo è davvero. Quante volte potrò essere qui ancora? Quali sogni possono avverarsi? Mentre velocemente ci cambiamo e ci riaccompagnano alla stazione, mi chiedo se un giorno potrò ritornare. Alle volte la fortuna capita una sola volta nella vita. A me è capitata quattro volte, e forse capiterà ancora. La fortuna, alle volte, trova alcuni ostacoli, duri come le pietre che Filippo ha spezzato nel Dojo di Kyoto. E spezzarle sempre dobbiamo, quelle pietre.
L'immagine che mi congeda dal Dojo di Kyoto è quella del saluto del maestro Iwasaki. Riesco solo ad inchinarmi ed a dire "Sensei...". Lui sorride, e si inchina (davanti a me, cintura bianca, ultimo arrivato) più in basso di me.
Gabba.

Tuesday, December 7, 2010

Made in Japan: La prova.

Oggi giorno d'esame. Poche parole, molta concentrazione, e la giusta tensione che ci accompagnerà fino a stasera.
Mokuso!





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Location:Kyoto, Japan

Monday, December 6, 2010

Made in Japan: Da Tokyo a Kyoto


Il trasferimento da Tokyo a Kyoto mi regala qualche momento di riflessione sui confini tra modernità e tradizione.
Basta una sola vita per comprendere la storia e la cultura di un popolo? E' sufficiente avere un approccio compilativo - o di ricerca - per comprendere dove inizia la tradizione e finisce la modernità? O forse bisognerebbe semplicemente 'vivere' l'esperienza attraverso la quotidianità?
Non credo di saperlo, non credo ci sia una soluzione. E, nel caso del Giappone, la sfida sembra essere impari. La barriera del linguaggio e la sua complessità intrinseca e storica mi impedisce qualsiasi contatto non occasionale con la cultura giapponese, di cui intravedo qualche spiraglio grazie alle pazienti spiegazioni (a volte ripetute) di Lorenzo.
Sono sul treno per Kyoto, una meraviglia tecnologica che permette ai vagoni di fermarsi esattamente dove le persone attendono, con una fila ordinata, di poter entrare. E sullo stesso treno, il controllore e la ragazza che vende i refreshments effettuano un grazioso inchino quando entrano e quando escono, come ad omaggiare il viaggiatore-cliente e ringraziarlo per aver portato il soldo quotidiano. Metafora banale, forse, ma vederla dal vivo è (fortunatamente) non così scontata.
Intanto mi godo un viaggio in un treno pulito, silenzioso, preciso. Un sostantivo e tre aggettivi che, nel paese da dove vengo, spesso non possono essere coniugati.
E, una volta arrivato a Kyoto, vorrei passare un parte del pomeriggio in un giardino così... ;-)












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Location:Kyoto,Japan

Sunday, December 5, 2010

Made in Japan: Kyoto Dreams

Ed eccomi qui, guardando il sole che sorge nella terra appropriata, sfruttando gli ultimi minuti prima di prendere il treno per Kyoto.
Il primo segmento di viaggio è volato via, ne restano due, che avranno temi diversi. Ascolto le ultime note dei corvi che mi fanno compagnia, mentre il giorno rischiara mente e corpo...


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Location:1丁目,Ota,Japan

Made in Japan: Kamakura Day

I treni, in Giappone, hanno qualcosa di ipnotico. La voce che annuncia la stazione sembra essere molto cortese ed allo stesso tempo distante, le persone - costantemente - intermediano la propria comunicazione attraverso cellulari, quasi tutti della stessa forma, qualcuno legge libri in verticale, qualcuno dorme, a volte qualcuno parla. Cose apparentemente normali, che qui diventano aliene e quindi più interessanti. Perché normali e diverse e straniere e gemelle. Il treno come metafora della comunicazione e dell'incomunicabilità, e non solo come mezzo di trasporto. Forse dovevo proprio venire in Giappone per scoprirlo.
Oggi il treno mi ha portato a Kamakura, un posto meraviglioso, che ho potuto assaporare grazie alla compagnia dei miei compagni di viaggio. Sensazioni difficili da spiegare, come se la capienza delle parole non rendesse giustizia alla potenza dell'impatto visivo.
Proverò a spiegarlo attraverso figure prese durante il giorno. Un'altra metafora, un presunto parolaio che (in)comunica attraverso fotografie di un giorno non ripetibile...











































E' vero, lo scopo di un viaggio non e' arrivare, ma oggi ero felice di essere arrivato a Kamakura. Non riesco ad immaginare una maniera più bella di chiudere la prima delle tre parti del mio soggiorno in Giappone.
Domani: Kyoto.


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Location:1丁目,Ota,Japan

Made in Japan: Shinseikai training e iperdensità.

L'esperienza giapponese sta diventando densa, e riportarla con parole inizia ad essere difficile. La giornata di ieri è durata 36 ore, con un buon training Shinseikai in una palestra dove si allenano i campioni di K-1, e dove - vicino ai sacchi - ho visto una foto con dedica di Andy Hug. Sono stato veramente colto dall'emozione, e spero di poterci ritornare. Ho perso il conto delle volte in cui sono stato in Metro e dei distretti che ho visitato, ho conosciuto Roberto, un artista eccezionale che vive e lavora a Tokyo, sono stato ad Asakusa per una visita al famoso tempio, poi una sana sessione Shinseikai e - stranamente sopravvissuto - appuntamento a Shibuya per cena.
Il tutto, frullato insieme, mi ha anestetizzato fino a stamattina, quando accendendo il telefono ho scoperto di avere fatto questa foto:






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Location:1丁目,Ota,Japan

Saturday, December 4, 2010

Made in Japan. Before the Storm.

Una mattinata di sole, temperatura gradevole, i corvi che per una volta non emettono quel tipico lamento assomigliante al richiamo di suocera, una giornata intera, da vivo e da spendere a Tokyo: una mattinata perfetta.
Alcuni pensieri ed episodi della giornata di ieri riaffiorano alla mente in maniera compressa, spicciola e adattata al modello giapponese, che cerco di elencare di seguito:

- Sia benedetto l'inventore del Washlet. Mai tecnologia fu più apprezzata in quei momenti dove sei solo e devi esprimere tutto te stesso (la toilette).
- L'inferno, se esiste, è un posto ipertecnologico e pieno di giocattolini da comprare, come il quartiere di Akihabara, ma tu non hai la carta di credito oppure ci lavori come uomo delle pulizie.
- La moda giapponese è esattamente incomprensibile come la moda Italiana. L'universalità del cattivo gusto.
- Non è vero che i giapponesi sono robotici e senza sentimenti, ieri sera abbiamo avuto due ospiti a cena e si sono dimostrati ampiamente organici, almeno fino alle 23. Poi sono andati in stand-by.
- Il mio lessico giapponese è aumentato del 100% in pochi giorni. Adesso so dire 'Mi scusi'.
- La metro di Tokyo dovrebbe essere preservata dall'UNESCO come patrimonio dell'umanità.
- I giapponesi sono estremamente gentili, ma se devono passare attivano la modalità 'Muted Caterpillar' e per passare nuclearizzano come schiacciasassi gli sfortunati avventori innanzi posizionati.
- Ogni fermata della metro di Tokyo ha un suono singolo e distinguibile, come una suoneria di cellulare programmata da Bach sotto acido lisergico.

Oggi primo allenamento giapponese, seguirò il Maestro nella sua avventura. Spero che al ritorno non dovrò comprare un biglietto per ogni parte del mio corpo che prenderà la metro, andrei immediatamente fallito.


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Location:1丁目,Ota,Japan

Friday, December 3, 2010

Made in Japan: Size counts.

Svegliarsi con qualche ora di anticipo ha sempre qualche vantaggio: ad esempio, stamattina sto godendo di una nipponica tempesta d'acqua (non la definirei pioggia), scrivendo il mio blog da una lobby con vista umida su vero giardino giapponese, lasciando al Sensei l'utilizzo della stanza condivisa (si dorme in due ma è utilizzabile da una sola persona alla volta).
La stanza ha un tatami, due letti altezza tatami (futon, credo si chiami l'oggetto), un ingresso omeopatico ed un bagno motorizzato Mitsubishi modello Terminator. Il tutto ha dimensioni lillipuzianamente gradevoli, che stimola una profonda riflessione sullo spazio vitale vero e presunto.

La mia giornata inizia ora, si va a caccia di esperienze, e di una colazione :-)


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Location:1丁目,Ota,Japan

Thursday, December 2, 2010

Made in Japan - Day One

Che giornata!
Sono a Ota (Tokyo), e non dormo da un certo numero di ore (26?). Condivido una stanza con il Sensei che è minuscola, bella e giapponese.
Le prime impressioni del mio Giappone sono mescolate ad adrenalina, caffè, tempura, sonno arretrato, illuminanti e profonde lezioni di cultura giapponese regalate da Lorenzo, suoni e colori diversi, stanchezza ed euforia. Non riesco a disegnare una metafora decente, ma credo che il Giappone sia come un pianeta gemello, ma eterozigote. Sono un ospite appena arrivato, che terrà la bocca chiusa ed occhi e orecchie bene aperti.
A domani


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Location:1丁目,Ota,Japan

Saturday, November 27, 2010

To sleep, perchance to dream.

Alle volte le parole non sono abbastanza. Cercherò di trovarle per descrivere il viaggio, anche se un grande scrisse "The point of a journey is not to arrive", lo scopo di un viaggio non è arrivare.


Wednesday, November 17, 2010

Giovedì

Saturday, November 13, 2010

Shinseikai Stars - Parte seconda: Un racconto.

E' un sabato mattina di metà novembre, alle volte fa freddo, alle volte fa caldo. Si chiama autunno, e le mezze stagioni ancora esistono, anche se per poco. Il Dojo è inagibile (lo stanno pulendo a fondo, succede ogni Anno Santo), ieri sera ci siamo allenati extra, e stasera ci si allenerà di nuovo. Quale migliore occasione per andare in gita, recuperare un po' di forze, scoprire luoghi caratteristici e ristorantini nascosti?
Decidiamo di partire alla ventura. Si va tra Lazio Toscana ed Umbria, non troppo lontano né troppo vicino. Il tempo è variabile, come se non si decidesse a piovere ma neanche a tirar fuori una soleggiata da squaglio e sudaccia improvvisa. Perfetto per il nostro scopo ed il nostro umore.
Ci contiamo: siamo io, Lorenzo, Massimiliano ed il Sensei. Luca è di turno in famiglia e declina l'invito. Faccio un rapido controllo delle risorse del giorno:
  • iPhone carico all'80%
  • Serbatoio pieno all'80%
  • Portafoglio con 80 Euro
  • Per la legge dell'80/20, 20% di voglia di guidare.
e quindi gli astri sono allineati, ricchezza sfrenata su quasi tutti i fronti.
Decidiamo con quale macchina andare. Quella del Sensei è troppo rossa, non va bene. Quella di Massimiliano è troppo piccola, non va bene. Quella di Lorenzo è troppo Mercedes, non va bene, e poi Lorenzo ha la cervicale ancora scossa dalle scosse del Sensei di ieri sera. Non rimane che la GabbaCar. 
Messo all'angolo, trasformo la difficoltà in un'opportunità e mi propongo come autista e chaperon, a patto di decidere per intero sulla colonna sonora del viaggio. Incautamente gli altri accettano la proposta, ma non sanno che li aspetta un'autostrada a base di Slayer, Metallica, Megadeth, Fear Factory, Motorhead, Fates Warning, Iron Maiden ed altri che farebbero impallidire il figlio cattivo del Predator di Schwarzenegger.

...

Si parte, e parte la musica.
Lorenzo inizia a raccontare aneddoti di vita dai più divertenti ai più toccanti, ed ogni volta, quando il suo accento vira verso il maremmano, si intuisce di arrivare allo Zenith del significato dell'universo. E poi quel significato viene tirato giù, sarcasticamente, come si tira giù un vestito dall'armadio, per dimostrarci che la vita va anche presa in giro.
Massimiliano parla del suo lavoro e della sua passione, di quello che sta combinando in questo periodo, della voglia di esplorare l'estero e di misurarsi con nuove esperienze, professionali ed umane.
Il Sensei parla del prossimo viaggio in Giappone, delle prove che dovrà sostenere, della preparazione psicofisica, di quello che vorrebbe vedere e di nuovo scoprire nel Sol Levante.
Io guido e ascolto. Mi piace ascoltare. Ogni tanto le conversazioni si incrociano, virano verso altro, ritornano lentamente a prima, si spostano, si scambiano, si intrecciano, si dividono e poi si ricongiungono. Si ride, si sorride, si parla. 
"Gabba, perché stai zitto?" - dice il Sensei.
"Ascolto."
Il Sensei prende l'iPhone dalla tasca, e scrive sulla sua lista nera: Gabba Ascolta.
Gli altri due ridono tra il toscano e il romano.

...

Verso le undici e mezza ci fermiamo in un autogrill per un ricambio idraulico. Si prende un caffè. Vado in cassa per pagare dopo breve e inutile colluttazione con il gruppo (perderei comunque), faccio lo scontrino, e cerco di avvicinarmi al bancone per un 3+1: tre normali e un decaffeinato. Il bancone in realtà è una fitta selva di primati già riprodotti (con prole) che sbranano brioches e svalangano cappuccini e caffè macchiati caldi su tazze fredde e viceversa. Non passerebbe neanche uno spillo. Inizio a muovere lo scontrino in aria con mosse di flamenco, cercando di attirare l'attenzione. Nulla di nulla. Si avvicina Lorenzo. 
"Beh... 'sti caffè?" - mi dice.
Io guardo la foresta di panze appoggiate al bancone e alzo le spalle.
E qui spunta il genio. Le definizioni di genio sono molteplici, e varie. La definizione che mi diverte di più è relativa al bipede che sa cogliere l'occasione e l'intuizione nello stesso istante. Lorenzo guarda prima il bancone, identifica la barista, e poi guarda Massimiliano che sta sfogliando una rivista.
"Massi, vieni un po qui, vieni."
Massimiliano si avvicina, Lorenzo bisbiglia qualcosa all'orecchio, Massimiliano si avvicina al bancone con un sorriso passepartout, dalla terza fila dice qualcosa alla barista che sorride a sua volta, annuisce, catapulta tre caffè più uno deca su un vassoio rococò con biscottini a lato, e lo porge al latore del sorriso. 17 secondi netti, contro il mio flamenco di 3 minuti e mezzo. Un caffè alla Pietro Mennea. Evito di guardarmi allo specchio quando usciamo dall'autogrill e torniamo alla macchina.

...

Sull'autostrada ci si rilassa guardando il paesaggio e le nuvole gonfie, massicce ma non minacciose, e si continua a parlare, a sognare il Giappone, a raccontar di campioni, di botte, di gaffe, di amori perduti e ritrovati, delle speculazioni internazionali di valuta (soprattutto Yen), ed il tempo - come raramente accade - ci è dietro e non davanti. Siamo quasi arrivati, mancano dieci minuti alla libagione, ed il sole decide di mostrarsi magnanimo, regalandoci anche i colori della campagna. 
Scendiamo dalla macchina, lentamente ci avviamo verso il posto prescelto al manducar di festa. Vediamo la serranda del ristorante chiusa, e sopra un cartello con scritto: "CHIUSO". Un vecchietto con la coppola, seduto su una sedia cambriana in legno massello guarda le nostre bocche spalancate e ci dice: "L'è chiuso".
Iniziamo a sospettare che non mangeremo nel posto prescelto.
Chiediamo al vecchietto il ristorante più vicino, e con un irresistibile accento ci ridireziona a dodici chilometri, cucina genuina senza alleggerimento portafoglio. Ci congeda (e congela) con una premonizione: "Badate, è sempre pieno di gente". Il sole, in quel momento, ci mostra la sua solidarietà e si nasconde dietro una nuvola grigia.
Ci rimettiamo in macchina, fiduciosi, trepidanti, un po' affamati.

...

Arriviamo al luogo indicatoci dall'avo. Un ingresso scarno al pianterreno, e sopra un'insegna: "Da Ornella". Proviamo ad entrare, il posto è pieno, sono le due passate e non di poco, e si rischia di non mangiare. Una signora corpulenta porta un tiramisù ad un tavolo, ci nota e sta per avvicinarsi. Un unico pensiero ci accomuna in telepatia: guardiamo tutti e tre Massimiliano, senza dire nulla. Lui ci guarda, e la sua faccia implora "Stavolta no...". Noi lo guardiamo, con l'espressione "Ti tocca". A mali estremi, estremi rimedi. Massimiliano, per spirito cameratesco, si adegua, e tira fuori un sorriso anabbagliante, seguito da un "C'è mica un tavolo per quattro, signora?". La signora guarda Massimiliano, sorride e risponde "Ve lo trovo io", e poi guarda noi, in sequenza. Il minuto successivo siamo al tavolo. Alle deità ed al Massimiliano volendo, si mangia. Dalla finestra il sole diventa di nuovo contento e si fa vedere.

...

Primo secondo contorno e caffè, e data la presenza del Sensei tralasciamo il dolce, stasera ci si allena. Passeggiamo per il borgo tra vicoli di sanpietrini umidi ed angoli dove il tempo non solo si è fermato, ma ha deciso di non aggredire il passato. 
Un'ora dopo, il sole s'è un po' stancato ed inizia ad allungarsi come uno sbadiglio. Bisogna tornare, le borse da Dojo sono in macchina e stasera ci si allena. Si va.
Il viaggio di ritorno è più silente, la concentrazione necessaria per l'allenamento inizia a salire pian piano e di solito il viaggio di ritorno sembra sempre più corto.
Vicino Orte una pattuglia dei Carabinieri ci ferma per un controllo. Nessuno di noi tre osa chiedere a Massimiliano un sorriso da forze dell'ordine, potrebbe uscire un risultato non atteso. 
Sbrigata la formalità del controllo documenti, si prosegue verso Roma, dove arriviamo ch'è buio e si va al baretto vicino al Dojo per un ulteriore caffè. Stavolta i caffè non sono 3+1, sono un quattro secco, la caffeina mi serve per tirare due lezioni, agonisti e post-agonisti. 
Si ripensa alla giornata passata insieme, e pian piano tutti i Senpai e gli studenti iniziano a rendere il Dojo vivo.

...

Alla fine dell'allenamento, vado da Lorenzo e Massimiliano con l'espressione "E anche questa è andata...". Loro sorridono. Si avvicina il Sensei, ci chiede perché ridiamo. Ripensavamo alla pattuglia dei Carabinieri e al sorriso mancato, rispondiamo. Sorride anche il Sensei. Dobbiamo immortalare il momento, penso. Chiamo Luca e Dario per farci fare una foto insieme, quattro mani sono meglio di due. E, uscendo dal Dojo, il nostro sorriso non si spegne, non è a comando, ma viene da dentro.

Nella foto, da sinistra a destra: Lorenzo, Massimiliano Varrese, il Sensei ed io. Un abbraccio a Lorenzo e Massimiliano per aver passato qualche ora insieme, anche se virtuale, e uno al Maestro per la sua pazienza nel leggere invenzioni semplici di uno studente complicato.




Thursday, November 11, 2010

Romanzo Shinseikai.

Nell'attesa che il romanzo Shinseikai veda la luce, il collegamicostudente Luca Mascelloni ha creato, disegnato e realizzato la copertina.



Cosa ne dite?

Wednesday, November 10, 2010

Proverbi Shinseikai

Presto e bene devono andare bene insieme, altrimenti vai al tappeto.

Chi trova un amico trova un buon sparring partner.

Chi ha tempo non si è accorto che il timer della palestra è spento.

Ne uccide più lo tsuki della spada.

Al dojo non si invecchia.

Nel dubbio fai un sabaki.

La speranza è il pane delle cinture bianche.

L'uomo propone ed il Sensei dispone.

Il karategi è come il pesce, dopo tre allenamenti puzza.

L'occhio del Sensei ingrassa il cavallo fa male.

Il kumite è bello quando dura poco.

Meglio un giorno da karateka che mille sul divano.

Chi vivrà si allenerà.

Chi fa più pugni che non vuole, o t'ha gabbato o gabbar ti vuole.

Chi non era zoppo, impara a zoppicare.
...

E voi? Ne avete altri?

Tuesday, November 2, 2010

L'uomo in nero.


Cielo nero uomo nero portami via lontano lontano da qui insieme ai miei pensieri senza punti senza virgole senza pause raffiche di colpi difficili da parare e che non posso evitare portami via non per morire ma per rinascere ogni volta ogni notte di lacrime asciutte... 

L'uomo in nero guarda la sua maschera e poi se stesso, allo specchio. Il costume nasconde la maggior parte delle cicatrici e delle ferite accumulate in anni di lotte, di battaglie a volte vinte. Ricorda benissimo il costume appena confezionato, il suo odore, le cuciture artigianali eppure resistenti, funzionali allo scopo. Ricorda ancora meglio le evoluzioni del costume, da semplice intermediario tra il suo segreto ed il mondo esterno, a vera e propria armatura adatta a continuare il suo lavoro. La parola lavoro lo fa sorridere.

Lavoro... io non ho mai lavorato. Non nel senso classico della parola. Ho imparato presto ad ingoiare l'orgoglio per nascondere l'odio, a sostituire la rabbia con un sorriso di circostanza, a ripassare mentalmente le tecniche di combattimento facendo finta di bere superalcolici. E, con gli anni, il mio fardello è sempre più pesante, come se ogni anabasi notturna restringesse il tempo a mia disposizione, e sostituisse le mie ossa con pietre scheggiate...

L'uomo in nero indugia ancora sulla maschera. La guarda come se guardasse un altra parte di sé, e non come una complicata mistura di polimeri fusa ed adattata sul proprio volto. A quest'ora della notte le ombre della caverna danzano insieme al caleidoscopio di luci che provengono dalla sala computer, senza un preciso suono. L'uomo volge la testa verso il basso, ed aspetta che l'incubo di ogni notte arrivi, puntuale, come un coltello al cuore annunciato dal giorno prima.


In fondo che cosa cerco? Cerco giustizia. E per combattere il nemico, quello che ha violentato la mia infanzia, non c'è altro modo di affrontarlo se non con le stesse paure che hanno determinato il mio secondo volto. Non c'è tempo per i sofismi, non c'è tempo per eleganti allegorie. C'è solo il tempo di aspettare la notte, e di agire.


L'uomo in nero alza le braccia per indossare la maschera. Lo specchio, ora, riflette l'oscurità perfetta. L'adrenalina batte nelle tempie come la notte, come ogni notte, come ogni battaglia. L'uomo sorride, mentre il dolore al deltoide sinistro si riaffaccia ricordandogli la lotta e la caduta della notte scorsa. Un suo errore. Dopo tanti anni c'è sempre qualcosa da imparare. E stanotte se ne ricorderà.

Attrezzi nella cintura, ok. Armatura, ok. Coperta termica, ok. Comando di emergenza, ok. Vettura, ok. E' l'ora di andare. Ho paura, ma la paura passa presto. Quello che devo fare è ben più importante della mia paura, e rimarrà dopo che la paura sarà svanita.


L'uomo in nero si accinge ad uscire. Sarà un'altra notte di quelle. Un ometto scivola silenziosamente elegante dietro di lui, aprendo la porta della caverna.
"Farà tardi, padron Bruce.".
Non è una domanda, è un gentile e rassegnato commiato.
"Si, Alfred, prepara l'infermeria e non aspettarmi.".
Bruce Wayne va a dormire, e Batman inizia la sua notte. Oscura.


Sunday, October 31, 2010

Il Karate, un Fax e l'agilità.


Sono al lavoro, scravattato, in equilibrio tra cose da fare non rimandabili e affari del secolo dirompenti. Ottobre non ancora maturo, fa caldo e poi fa freddo e poi caldo e poi il mal di gola maledizione che non ci voleva ero appena guarito ma non importa mi allenerò con le fiamme nella trachea o senza, tanto è l'istesso.

Arriva un messaggio del Sensei.
"OSU!Quandohaicinqueminutiditempotidevochiedereunfavore".
Quando il Sensei chiede la mia attenzione lascia gli spazi nello spogliatoio dell'iPhone.

Paro il messaggio con un Sune Uke e tiro un messaggio di ritorno.
"Quando       vuoi       no        problem".
Quando voglio l'attenzione del Sensei abbondo negli spazi come fossero gratis.

Passano cinque minuti dove i colleghi costruiscono e distruggono imperi, edificano mausolei di parole e guardano e riguardano una striminzita e sgradevole brochure di prodotto come fosse l'Odissea.

Il mio not-so-smartphone vibra ancora. Guardo.
"OSU!Sonoin(nomecliente)edhobisognodimandareunfaxperl'iscrizioneallagaradel31Ottobre".
Affari Shinseikai. Aggiusto le priorità del Creato ed eseguo un renice di ogni singolo task dall'Arca di Noè ad oggi, lasciando spazio per il fax.

Faccio ballare le dita sulla virtual tastiera dell'iCoso ed invio fotonica risposta.
"Va       bene,       manda          dettagli        e        numero".
Passano altri cinque minuti e ricevo mail con le informazioni.
Mi reco al fax.
Faccio tredici (13) tentativi consecutivi senza riuscire ad inviarlo e capisco che dall'altra parte:

a) non hanno un fax
b) hanno un fax ma è spento o non funzionante
c) il fax è acceso ma la testa del ricevente no.

Dopo aver chiamato il numero capisco che la situazione è tra b) e c), ricordandomi del buon vecchio Gassmann e di quando interpretava il pugile suonato ("i cazzotti fanno male, fanno."). Un altro paio di tentativi e riesco a mandare il Fax per l'iscrizione alla gara di oggi. Stampo la ricevuta, e la metto in tasca.

Verso l'ora dello Shinseikai, mi reco con un mio mascellonico collega al Dojo, vedendo il Sensei Testarossa da lontano e sventolando il foglio della ricevuta in beffardo piglio cameratesco, con una fallace intenzione di volatile ricatto. 
Il Sensei alza un sopracciglio. Esibisce un Kagi-Tsuki a curvatura 9 senza pugno, per far scomparire il foglio dalla mia mano, che passa nella sua in pochi millisecondi.

Guardo la mano.
Prima c'era un foglio, ora non c'è più.
Con un espressione ebete vado nello spogliatoio e penso che (forse) uno dei segreti del Karate non è la forza, ma la leggerezza e l'agilità.

Friday, October 29, 2010

One

Non ricordo tutto
e non so se è sogno o realtà
ma dentro sento l'urlo
ed il silenzio che lo soffoca


Adesso che la guerra è finita
mi sveglio e non riesco a vedere
quel poco che è rimasto di me
tutto irreale meno che il dolore


Tenuto in vita da tubi nella carne
come una bigiotteria di guerra
appeso a macchine che mi tengono in vita
aspettando che le spengano.


Il miglior combattimento è quello evitato,
e la migliore guerra è quella che non è mai successa.



Monday, October 25, 2010

Quesito per solutori più che abili.

Riempire le parti mancanti.

Zoppica zoppica, caro il vecchietto
come un sonnambulo sceso dal ____
Che conti i colpi ed i lividi scuri
e speri che questo recupero duri
Quel tempo che basta a far riposare
le ossa che stridono al tuo respirare.

Zoppica e pensa a chi non rimane
a chi sta fermo per settimane
A chi pensa di esser più ____
e non si accorge di sfidare la sorte

Zoppica e piega le labbra in sorriso
e vedi negli occhi degli altri il tuo viso
Mentre nel Dojo ti guardi allo specchio
ti infondi coraggio per non esser ____.

Saturday, October 23, 2010

Shinseikai Stars - Parte prima.

Un Dojo, in genere, riserva sorprese. Il Dojo dello Shinseikai Karate riserva sorprese più forti, emozioni che ti rimangono dentro e che ti aiutano, soprattutto dopo la mattinata del Sabato con gare viciniori, a superare fiero e contento quella leggera zoppia che scende verso le nostre leve dopo un sano, vitale, approfondito, variegato e ben distribuito allenamento a base di kumite (sparring).

Una delle emozioni forti è scoprire che il tuo vicino di botte è un attore che ha partecipato ad un bellissimo film - Lezioni di Volo - riconosciuto come d'interesse culturale nazionale. I pigri possono trovare una recensione qui.

Il vicino di botte si chiama Tom, ed oggi ho avuto il piacere di fare un po' di sparring (anche) con lui. A perenne memoria, una fotografia scattata da Fred con l'Arduino alle nostre spalle mentre effettua gli esercizi post-atomici alla sbarra (no, non sta levitando). Da sinistra verso destra, il Sensei, Tom Karumathy, io. E non finisce qui.

Friday, October 22, 2010

Questions & Answers.

"Papà, perchè hai una R disegnata sul braccio?"
Sorrido.
"Mi serve per ricordare qualcosa."
Sorride lei.
"E cosa devi ricordare?".
Mi guarda.
"Quello che devo fare quando frequento le lezioni di Karate."

La guardo con aria di sfida, aspettando la sua prossima domanda.
Lara guarda da un'altra parte.
Prende coraggio, ma non sa come chiederlo.
Poi trova le parole.

"Papà, cosa significa la lettera R?"
Furba, la tipetta.
"Tante cose. R per Respirare. Se non respiri non puoi..."
Aspetto ad arte.
"Non puoi fare cosa?"
Sorrido.
"Recuperare".
Cammina per la stanza.
"Recuperare?".
La seguo.
"Recuperare, far tornare le forze".
Si ferma.
"E poi?".
Continuo.
"Ritornare in guardia."
Mi guarda.
"Cioè?".
Cerco di spiegarle senza pontificare.
"Quando porti una tecnica di attacco, tendi a scordarti che devi sempre mantenere attiva la difesa, la guardia."
Mimo la posizione di guardia.
"La guardia."
Ripete parola e posizione.
"E poi c'è l'ultima R."
Mi fa lo sguardo curioso.
"E qual è?".
Aspetto un secondo. E poi parlo.
"Rilassato. Se non sei rilassato duri meno di un minuto."
Sgrana gli occhi.
"Veramente?".
Sogghigno.
"Si."
Mi guarda il braccio.
"Ma a te non piacciono i tatuaggi."
Rido.
"E' vero, ma è fatto a penna."
Sorride.
"Perché?"
Guardo il residuo della R sul mio braccio.
"Così lo ricordo due volte, quando lo scrivo e quando lo leggo."
La bacio, esco e affronto un'altra giornata.

Wednesday, October 20, 2010

Storia di un minuto.

SBAM!
"Quarantasette."

Il piede del Sensei si appoggia sul casco di protezione, consistente al punto giusto per farmi capire che il colpo è arrivato, leggero al punto giusto per non farmi accasciare in terra.
Sono nel Dojo. Credo che la lezione sia iniziata da un po', ma non so esattamente da quanto. 
Ho immagini sfocate di quello che è successo prima, ed immagino che quello che verrà sarà ugualmente distaccato, come una fotografia passata più volte al Photoshop.
Cerco di saltellare. Invio il comando al corpo e lui mi fa capire che ha reagito al comando, ma non ho modo di controllare se effettivamente le gambe si stanno muovendo. Non posso staccare gli occhi dal rosso, se solo penso di distrarmi me la fa pagare. 
Continuo a guardare il rosso negli occhi, inizio la rotazione di un Mawashi Geri Gedan, lo para e me ne restituisce due, uno Chudan (parte centrale-sinistra del torso) e uno Gedan (gamba sinistra) che riesco a parare sollevando leggermente la gamba con un Sune Uke. La combinazione tra calcio circolare, parata e regole Shinseikai (senza guantoni, pugni al viso non ammessi) rende le distanze corte e ancora meno adatte a pericolose mancanze di concentrazione o lucidità. Il viso del rosso è a qualche palmo dal mio. Non alzo la guardia, probabilmente non riuscirà a tirare un Mawashi Geri Jodan (calcio circolare alla parte alta del corpo, il viso) da così vicino. Sbagliato.

SBAM!
"Quarantotto. Alza quella guardia."

Sistemo il caschetto in fretta, con il colpo n. 48 si è leggermente girato verso destra. Il paradenti non aiuta a respirare correttamente, ma è un prezzo ampiamente conveniente da pagare per esprimersi correttamente dopo la fine dello sparring. Decido di farmi avanti, in maniera dissennata, ma ritorno subito in guardia dopo un amaro sorriso (interiore), ricordandomi della spiegazione non-verbale del Sensei ad un mio approccio analogo durante uno di questi sparring autunnali, e della spiegazione verbale seguente ("Non usare mai il tuo fisico per affrontare l'avversario."). Meglio stare calmi. Attendo l'attacco cercando un Sabaki (scartamento laterale) che non riesco ad effettuare, il rosso è troppo veloce. Tira due Shita Tsuki (piccoli montanti alla bocca dello stomaco) in successione che riesco ad apprezzare nella loro interezza e un Mawashi Geri Gedan (basso) che riesco quasi a parare. Non riesco a parare, però, il colpo successivo diretto al caschetto.

SBAM!
"Ed ecco il Quarantanove."

Troppo tardi mi accorgo che la guardia era bassa. Un attacco adeguato (segno +) ed una difesa non adeguata (segno -), per legge matematica, risultano in un match molto breve (segno -). Questa me la ricorderò, potrebbe farmi comodo in futuro.
Provo una combinazione Mae Mawashi Geri Gedan e Mawashi Geri Gedan, la prima è parata dal rosso, la seconda no. Continuo con un Sanbon Tsuki (sequenza veloce di tre pugni) dove percepisco di essere andato a segno almeno una volta, forse due. Questo pensiero non si è ancora consumato interamente quando sento (prima) un Ushiro Geri Chudan (calcio all'indietro indirizzato alla parte centrale del corpo) e vedo (poi) il rosso che esegue la tecnica. Il colpo arriva prima della sua concretizzazione visuale, ed Einstein ne sarebbe orgoglioso. Abbasso la guardia. E arriva, puntuale, il promemoria, sempre diretto al caschetto.

SBAM!
"Cinquanta. Bingo!"
"Yame!"

Allo Yame (il segnale di fine) il rosso si ritrasforma nel Sensei, e mi ricorda della mia guardia bassa. Prima che il resto della lezione si sottoponga a dissolvenza incrociata verso il recupero, un'ultima considerazione continua a saltellare in pieno spirito Shinseikai.
"Quando stai facendo Kumite non farti giocare mai a tombola".

Tuesday, October 19, 2010

Giorni.

Ci sono alcuni giorni in cui non ti accorgi di essere fortunato.
Ce ne sono altri dove la tua fortuna ti viene sbattuta in faccia dalla miseria di altri.

Ci sono alcuni giorni in cui pensi di aver lavorato decentemente.
Ce ne sono altri dove sei l'ombra di quello che pensavi di essere.

Ci sono alcuni giorni in cui non riesci a vedere un sorriso sincero.
Ce ne sono altri dove l'unico sorriso sincero che hai visto è quello di un barbone.

Ci sono alcuni giorni in cui ti alleni, credi di crescere e di aver dato il meglio.
Ce ne sono altri dove ti rimetti in fila, per ultimo, perché sei tornato indietro.

Ci sono alcuni giorni in cui pensi di dover spiegare qualcosa ai tuoi figli.
Ce ne sono altri dove i tuoi figli potrebbero spiegarti qualcosa, ma non lo fanno.

Ci sono alcuni giorni in cui credi che l'amicizia non possa esistere.
Ce ne sono altri dove ti chiedi come sia possibile esserti amico.

Ci sono dei giorni dove scrivere è un fiume in piena.
Ce ne sono altri dove quello che hai scritto é terra arida, solcata dall'inadeguatezza.

Ci sono alcuni giorni in cui uno gyaku-tsuki fa male subito, ma non importa.
Ce ne sono altri dove senti il ricordo della tua guardia bassa, e troppo tardi.

...

Ci sono alcuni giorni in cui non ti va di fare qualcosa.
E proprio in quei giorni devi fare di più, e meglio, per chi ami.

Wednesday, October 13, 2010

Folklore V

« È impossibile ottenere il moto perpetuo per via meccanica, termica, chimica, o qualsiasi altro metodo, ossia è impossibile costruire un motore che lavori continuamente e produca dal nulla lavoro o energia cinetica »
(Max Planck, Trattato sulla termodinamica, Dover (NY), 1945)

Max Planck aveva torto marcio. La macchina del moto perpetuo non solo esiste, ma si trova a Roma in un capannone sito in via Pico della Mirandola. Quindici.
E' Ottobre, ed il Dojo è pienamente funzionante anche quando non frequentato. Se non vai al Dojo, il Dojo viene a casa tua e finisce anche per rimanerci ospite mesi e mesi.

La smemorina retroattiva.

La smemorina (che, ricordiamo, è sostanza semitossica  prodotta in situ dopo anni di allenamenti inter-stile, di cui si può trovare ampia documentazione su questo blog) ha recentemente mutato parte delle sue caratteristiche adattandole ad una migliore interazione con l'ospite umano: è diventata retroattiva, e quindi colpisce prima di recarsi al Dojo e, in particolare, durante la fase di costruzione della borsa per il Karate (utilizziamo volentieri il termine 'costruzione' in quanto l'approntamento della borsa è un processo situato tra l'impressionismo di Van Gogh ed il design futurista di Le Corbusier). 
Non di rado, durante il magma accalcato e accaldato di fine lezione con doccia incorporata, è possibile sentire gli effetti della smemorina retroattiva che generalmente si concretizzano con un "Noooo. Le mutande...". Al malcapitato, che si guarda intorno trattenendosi dal chiedere se sussistono le condizioni per una mutanda di scorta, non resta che la vestizione del jeans a pelle, tra una silente e cameratesca ilarità degli studenti Shinseikai. E' possibile identificare il bipede smutandato all'uscita dello spogliatoio per le evidenti movenze da Elvis Prestley miste ad una inaspettata celerità nel ritorno a casa. 

I lucchetti di Hello-Kitty.

Gli armadietti a salto quantico sono stati aggiornati con un upgrade ortogonale: la prima fila orizzontale e l'ultima fila verticale hanno degli occhielli in bismuto (numero atomico: 83) adatti ad ospitare lucchetti di sezione e grandezza variabile. I lucchetti forniti dall'amministrazione della palestra hanno chiavi 'anime'  lillipuziane con uno spettro ampio, da "Il mio primo diario segreto", passando per "Memole dolce Memole", fino ad arrivare alla chiave "Hello Kitty". Alla fine dell'ultima lezione ho estratto il mio portafoglio dall'armadietto, aspettando un salto quantico temporale che non si è verificato. Controllando meglio, ho ritrovato nello scomparto dei documenti di identità il passaporto di Akira Takasaki, il mitico chitarrista dei Loudness.

Il maledetto esercizio di Senpai Tullio.

Il Senpai Tullio, che viene sistematicamente selezionato dal Sensei alla fine delle ripetizioni (ad esempio, addominali) per la sua capacità di pronunciare i numeri giapponesi da uno a dieci in due secondi netti (eseguendo l'esercizio in maniera corretta, ovviamente), durante la fase di riscaldamento attiva non cessa mai di scaldare anche i nostri cuori. 
Un esercizio in particolare allieta primati di età e sesso variabile, che arriva puntualmente in piena fase di obnubilamento da mancanza di ossigeno, con la sequenza riportata di seguito:
  1. Gli sguardi degli studenti si incrociano dubbiosi.
  2. La tensione sale alle stelle, l'esercizio potrebbe essere invocato.
  3. Si pensa (di nascosto) "ecco, adesso lo chiama".
  4. Senpai Tullio aspetta - ad arte - qualche secondo per creare false aspettative.
  5. Si pensa (di nascosto) "forse l'abbiamo sfangata".
  6. Senpai Tullio mostra la posizione iniziale, che presuppone inequivocabilmente l'esercizio ammazzafiato senza esplicitarne l'interezza.
  7. Si pensa (di nascosto) "...azz".
  8. Senpai Tullio mostra l'esercizio.
  9. Non si pensa neanche di nascosto, si risparmiano le energie.
  10. Senpai Tullio urla l'Hajime.
Shinseikai è anche eseguire il maledetto esercizio di Senpai Tullio con il sorriso. E sicuramente il sorriso, alla fine dell'esercizio, c'è.
  1. Si pensa (di nascosto) "lo avevo detto che lo chiamava".
Bello il Mercoledì. Un giorno Shinseikai tra due giorni Shinseikai.
A domani.

Tuesday, October 12, 2010

Martedì.

M come Martedì.
Mokuso - la concentrazione necessaria per affrontare la giornata, non solo nel Dojo.
Melissa e Mirco, quando erano bimbi e volevano rimanere in braccio, una vita fa.
Mawatte - affrontare la direzione opposta, cambiare tutto quando è necessario.
Musica, alle volte un riproduttore musicale proprio non serve, se la musica è dentro.
Mae Mae Geri - colpire con la gamba avanzata, e cogliere al volo l'occasione.
Malincuore, di chi non può recarsi nel Dojo perché a tutt'altro affaccendato.
Mawashi Geri - ruotare non solo con la gamba, ma con tutto il corpo, anca e spalla.
Mattina, è ora di iniziare la giornata, pensando ad oggi come ad un regalo.

Saturday, October 2, 2010

Il Dono.

2 Ottobre 2049

Caro diario,
la scorsa settimana ho ricevuto un breve messaggio dall'avvocato di mio nonno che diceva di chiamarlo per avere notizie sulla scatola, cosa che ho fatto quasi subito dopo. L'avvocato è un ometto fine come una matita che indossa sempre lo stesso vestito tetro e retro. 

Mentre parlavo con lui all'Oloconf, i miei pensieri andavano in direzione della mia agognata vacanza post-diploma, e non certo ad una stupida scatola lasciata in eredità da mio nonno, andatosene un paio di settimane fa (beato lui, nel sonno), e chiusa da un lucchetto le cui chiavi sono in mano all'ometto-matita.

Peraltro, mio nonno era un gran rompicoglioni, tirchio come un cardo - ha lasciato i suoi averi ad una strana fondazione - e c'erano fin troppe persone al suo capezzale (figli e nipoti) cercando di scambiare battute sociali col morto in casa. Evitato.
E quindi la domanda è: cosa c'entro io con quella scatola, visto che

Punto Uno non me lo sono mai filato, 
Punto Due non sono neanche l'ultimo dei suoi nipoti (Alexito Jr. ha 14 anni e da come cresce diventerà un FdM certificato e garantito prima di quelli della sua generazione) e 
Punto Tre sono il nipote che ha visto meno di tutti, con cui ha parlato meno di tutti, e quello che meno di tutti si fa notare. 

Non ho i capelli verdi di Melania, non ho 74 piercing come Molosso, non sono diventato famoso come Xandros, non sono emigrato all'estero come Marcolino. Perché a proprio me? Gli altri mi guardano in cagnesco. Mancava solo questa.

5 Ottobre 2049

Caro diario,
delusione estrema. Sono andato dal lapis, che ha aperto la scatola, grigia, anonima, con dei segni strani sopra scritti in verticale. Ne ha tirato fuori un libro. UN LIBRO. Grigio, anonimo, con gli stessi strani segni riportati in verticale.
...
Poteva almeno lasciarmi un lingotto di iridio, il vecchiopirla. 
Il disappunto è stato così grande che ho preso due Serenax per dormire e ho passato il resto della serata davanti alla NeuroVisione.

7 Ottobre 2049

Caro diario,
ieri ho aperto il libro e non ci ho capito nulla. Sembrano scritti in sequenza, da una data nel 2009 in poi, che riportano parole che non capisco, in forme diverse. Alcune sembrano ispirate da scrittori del passato, altre sembrano brani di novelle brevi, ed altre ancora sono cronache di quei tempi e del Grande Vecchio che frequentava un luogo dove si parlava una lingua incomprensibile (ho controllato su GoogleMind, sembra nipponico classico) e ci si riuniva per fare attività fisica. Leggendo tra le pagine, ho anche capito che queste parole venivano pubblicate sulla Griglia, che a qui tempi veniva chiamata InterRete. E' la prova finale che Nonno era un pazzo, pieno di se stesso. Scuotendo il libro ne è uscito un biglietto, con un nome, un titolo ed un indirizzo. Nell'altro lato una scritta di suo pugno, dedicata a me, che diceva:

"A Leo: trova un buon maestro, e troverai la passione".

Mio padre sta chiamando da mezz'ora, devo rispondere altrimenti addio all'assegno mensile.

12 Ottobre 2049

Caro diario,
la storia della scatola e del libro è iniziata come una rottura di gonadi, ma piano piano mi sta intrigando. Ieri ero in GraviScooter e mi trovo a passare vicino all'indirizzo segnato sul biglietto. Ho deciso di dare un'occhiata, e fatta una piccola deviazione, mi trovo sul posto. Spengo il Gravi e mi avvicino. Il luogo sembra deserto, e un po' vecchio. Una specie di box basso e largo, con delle finestrelle dalle quali non viene alcuna luce, e senza nessuna scritta. Busso.
Aspetto.
Decido di andarmene.
Torno indietro.
Busso.
Aspetto.
Me ne vado. Il luogo, oltre alla desertitudine ed alla vetustà, mi sembra minaccioso. Rimango un minuto seduto sul Gravi nell'attesa che il box si risvegli e sputi fuori una sorpresa, che puntualmente non arriva.
Accendo il Gravi e me ne torno a casa, mio nonno era una fregatura bisbetica, e l'intrigo era tutto nella mia testa.

18 Ottobre 2049

Caro diario,
due giorni fa porto il Gravi a fare un giro per l'aria mefitica della città e passo per la via indicata nel biglietto: il box è acceso. Devio dal mio percorso per avvicinarmi al luogo, con il reattore al minimo, quasi senza far rumore. Mi fermo a distanza di sicurezza, quasi intenzionato a scapparmene via. La curiosità ha il sopravvento, spengo il reattore, mi avvicino alla porta. Rimango impalato davanti alla porta come una tavola di legno, e poi decido di bussare, ma prima di colpire la porta con le nocche la porta si apre. 
Ne spunta un vecchio, alto, asciutto, capelli rosso irlandesi virati al bianco, che mi guarda con aria neutra. Sulla maglietta gli stessi segni riportati sulla scatola e sul libro.
Desideri qualcosa, ragazzo?
Bruongiornuo (quando parlo con sconosciuti mi emoziono, la lingua inciampa ed emette suoni non voluti), e gli consegno il biglietto.
Tiene il biglietto tra le mani, lo gira, vede la scritta.
Gli occhi del biancorosso lampeggiano per un singolo attimo, che viene immediatamente nascosto come a salvaguardare qualche emozione che non può essere mostrata.
Mi guarda. Scruta attentamente il viso, poi passa al corpo e mi rendo conto che il tutto non può essere durato più di mezzo secondo.
Gabba, mi dice.
Guardo di lato, imbarazzato.
Veramente mi chiamo Leonida. Leo, per gli amici. Gabba era il nomignolo del vec... di mio nonno.
Dov'è tuo nonno?
Abbasso il tono di voce.
Se ne è andato il mese scorso.
L'asciutto continua a guardarmi con gli occhi neri, molto poco irlandesi.
Accenna ad un sorriso. Abbassa gli occhi. Scuote la testa. Li rialza.
Devo parlarti. Vuoi entrare, ragazzo?
Ragazzo un pezzo di abbacchio, ho 18 anni, penso.
Faccio un cenno di assenso dislessico come il precedente saluto ed entro.
...
...
...
Esco dal box quando è buio, ho proprio perso il senso del tempo. Mi volto. Il vecchio fa un movimento strano con i pugni chiusi ed emette un suono. Credo sia il suo modo di salutare. Mi dice di tornare quando voglio, se mi andrà.
Simpatico e solenne allo stesso tempo. Chiude la porta con la stessa dignità con cui l'ha aperta.
MI scopro a pensare. Non sapevo queste cose del nonno. Ancora non ho ben capito che cosa facevano insieme, ma ho intuito che il vecchio era una specie di insegnante, e mio nonno uno studente. 
Una frase mi è rimasta in mente. Un suono sconosciuto, seguito da "disciplina della giusta verità". Non so riprodurre quel suono, ma proverò a scriverlo e a cercarlo su GoogleMind. 
E stasera niente NeuroVisione. Proverò a rileggere il libro, magari riesco a capirci qualcosa.